“Non è un loro problema”
Jacques Diouf,
Assemblea Fao, giugno 2002
1. I prodotti agricoli geneticamente ricombinati: trent’anni di scontri.
Attentato all’integrità della natura, pretesa di sostituirsi a Dio o espressione della capacità dell’ingegno umano di adattare la realtà e la natura ai propri bisogni? Cibo avvelenato o cibo esattamente uguale a quello che si è usato in migliaia di anni di trasformazioni naturali? Strumento di distruzione o di incremento della biodiversità? Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo di poche multinazionali avide di profitti, o panacea per eliminare il problema della fame nei paesi più poveri?
Queste sono le alternative che si contrappongono nelle discussioni in merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura, e quindi dei prodotti agricoli geneticamente modificati, che chiameremo d’ora innanzi PAGM.
Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro concreta immissio-ne e diffusione sul mercato, i PAGM sono stati al centro di uno scontro che ha ri-guardato non tanto le regole più appropriate da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.
Attualmente, i PAGM sono divenuti, con una crescita costante, una componente importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole interes-sate sono concentrate per il 99% in soli tre paesi: Stati Uniti, Argentina e Canada, mentre il residuo 1% è suddiviso tra Cina, Australia e Sudafrica): complessiva-mente erano coltivati con PAGM nel 1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni nel 1998, e 39,9 mil nel 1999.[1]
Analoga è stata la crescita in termini economici: si è passati da un volume d’affari di 75 mil $ nel 1995, a 2.2 miliardi $ nel 1999, a 3 miliardi $ nel 2000; il volume d’affari è previsto di 25 miliardi $ nel 2010 .
Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei PAGM non è però diminuito di intensità: osserva in proposito Richard Lewontin che l’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura ha provocato reazioni ed emozioni come mai si erano viste nella storia della innovazione tecnologica: neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia nucleare analoga a quella esistente nei confronti dei GM.[2]
Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità teorica dell’uso dei PAGM ai problemi connessi con il loro uso concreto.
Due sono le caratteristiche che il confronto ha assunto in questa seconda fase.
In primo luogo una molteplicità di temi di carattere scientifico, giuridico o pratico: sanitari, agricoli, ambientali, economici e proprietari ha sostituito al centro della scena gli aspetti etici e politici, che avevano polarizzato la fase iniziale del dibatti-to.
Ma questi ultimi non sono affatto scomparsi. Anzi, nella maggior parte dei ca-si le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo operate pregiudizial-mente e fidesticamente in base a quei postulati etici o politici formalmente scomparsi.
In secondo luogo, si è verificata una radicalizzazione geografica, ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla coltivazione e alla commercializzazione di PAGM. L’UE mantiene infatti – soprattutto per le sollecitazioni di taluni Stati membri – una posizione di sostanziale blocco dell’utilizzazione di PAGM.[3]
Anche in questo caso ci sono, non dichiarati, aspetti che dipendono dai diversi in-teressi economici, agricoli e soprattutto di concorrenza e di struttura socio-agricola dei due blocchi.
Non va dimenticato infatti che l’agricoltura tradizionale è praticamente scomparsa negli Stati Uniti (anche se sopravvive nell’immaginario dell’opinione pubblica), mentre è assai forte, come componente sociale e politica, in molti paesi dell’Unione Europea attuale, e soprattutto nei paesi che sono pros-simi a farne parte (i paesi dell’Est Europa, in precedenza inseriti nel blocco dell’Unione Sovietica).
Ma vi è un terzo aspetto dell’attuale confronto, ed è costituito dal quasi parados-sale scambio delle parti tra sostenitori e oppositori dei PAGM, sul quale vale la pena di soffermarsi.
2. Il balletto malthusiano.
“La battaglia per raggiungere l’obiettivo di nutrire l’umanità è fallita. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone saranno condannate a morire di fame”.
Così esordiva il libro che ha rappresentato l’opinione ambientalista neomalthusiana [4] degli anni Sessanta del secolo scorso, The Population Bomb di Ehrlich [5].
Si è trattato di una previsione certamente errata, ma coerente con la tradizionale impostazione ambientalista di preannunciare catastrofi ecologiche tendenzial-mente irrimediabili per mobilitare l’opinione pubblica e creare consenso: tra que-ste una delle colonne portanti era proprio quella dei limiti della crescita e dell’imminente tracollo delle risorse disponibili – e in particolare dell’insufficienza del cibo – a fronte dell’aumento della popolazione .
Viceversa, i sostenitori del progresso hanno sempre irriso gli annunci catastrofici degli ambientalisti, ritenendo che, come in passato, le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche avrebbero permesso di affrontare e superare le difficoltà.
La comparsa sulla scena dei PAGM, che – secondo una opinione diffusa – potreb-bero eliminare o attenuare il problema della fame mondiale, ha comportato un imprevedibile scambio delle parti.
Infatti gli ambientalisti, posti di fronte alla scelta tra la catastrofe per fame e la catastrofe da innovazione tecnologica, hanno optato per quest’ultima soluzione e hanno quindi scelto l’opposizione ai PAGM, abbandonando il pericolo neomalthu-siano e tutte le argomentazioni connesse con i limiti della crescita.
Ed infatti, la tesi più diffusa attualmente tra gli ambientalisti è quella prospettata da Amartya Sen, secondo la quale il problema della fame non dipende dalla man-canza di cibo o da limiti della natura, ma dalle relazioni socioeconomiche: l’obiettivo è quindi quello di agire su quelle cause, mentre l’innovazione tecnologi-ca costituita dai PAGM permette un inutile aumento della produzione, provoca incontrollabili rischi per l’ambiente e per la salute e non risolve il problema della povertà[6] .
Un percorso diametralmente opposto hanno ovviamente dovuto seguire i fautori del progresso.
Questi, per sostenere la necessità o quantomeno l’utilità dei PAGM hanno accen-tuato il pericolo di catastrofi alimentari nel prossimo futuro: l’accrescersi del pro-blema della fame nel mondo e, più specificatamente, dei problemi agricoli e sani-tari che si proporranno, in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, per effetto dell’incremento della popolazione mondiale . Secondo costoro, i PAGM permetto-no di evitare questi pericoli, in quanto consentono di aumentare quantitativamen-te e migliorare qualitativamente la produzione di cibo, di incrementare le compo-nenti nutrizionali di singoli prodotti, di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura (consistente nella deforestazione e nell’uso di fertilizzanti e pesti-cidi chimici). Viceversa, senza l’uso di tecniche biotecnologiche, e ricorrendo e-sclusivamente alle tecniche tradizionali, sarà assai difficile, e per molti impossibi-le nutrire i 9.4 miliardi di persone che, secondo le stime, popoleranno la terra nell’anno 2050 .
Recisamente in questo senso sono, per esempio, le conclusioni del Rapporto “Transgenic plants and world agriculture” predisposto dalla Royal Society del Re-gno Unito : “La nostra conclusione è che bisogna agire per venire incontro agli ur-genti bisogni di pratiche agricole sostenibili a livello mondiale, e se si vuole soddi-sfare la domanda di cibo di una popolazione mondiale in continua espansione sen-za distruggere ulteriormente l’ambiente e le risorse naturali. A tal fine, la tecnologia genetica, insieme alle altre tecnologie, deve essere usata per incrementare la pro-duzione dele principali fonti di cibo, per migliorare l’efficienza della produzione, per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura e per agevolare la vita dei piccoli pro-duttori” .
Tutto ciò porta inevitabilmente l’opinione pubblica a privilegiare scelte determina-te dalla fiducia o dall’affinità con uno dei due schieramenti in campo, piuttosto che da un interesse verso la conoscenza dei dati scientifici e verso una analisi senza pregiudizi dei dati scientifici e da scelte pacate e razionali.
*
Il tema degli effetti dell’espandersi dell’utilizzazione dei PAGM sul problema della sottonutrizione e della fame nei paesi in via di sviluppo e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale ha acquisito quindi una decisiva impor-tanza nel dibattito concernente la ragionevolezza della utilizzazione futura di pro-dotti geneticamente ricombinati. Ed infatti, a fronte dell’ opposizione ambientali-sta all’uso delle tecniche genetiche applicate all’agricoltura, la insistenza sull’esistenza di un interesse generale e collettivo – e non solo dei produttori, le multinazionali della filiera agroalimentare – per l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM può essere giustificata solo se viene dimostrata la necessità, o quanto me-no l’utilità dei PAGM per adeguare la futura produzione agricola ai bisogni della popolazione.
È però necessario offrire al lettore alcuni dati che permettono la comprensione delle argomentazioni che saranno svolte.
3. Incroci tradizionali e PAGM.
Tutte le attuali coltivazioni agricole sono il risultato di lente e continue selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività, i valori nutri-zionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche l’odore e il colore.
Questo significa che tutti gli attuali prodotti dell’agricoltura sono diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale. La maggior parte di essi – in Euro-pa oltre il 90% – deriva da specie che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente coltivate modificando in modo sostanziale e irrever-sibile le condizioni naturali originarie.
Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine le specie oggi coltivate sono ormai estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.
In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa categoria.
Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno lo stesso o-biettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica, cioè con tecniche con-sistenti nell’estrarre (con varie modalità ) il DNA corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo “donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente. L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una resa quantitati-vamente o qualitativamente migliore, incrementando la resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio aridità del terreno, temperature più basse o più elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà non modi-ficata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza a prodotti pesti-cidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati. L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli, più attraenti per il consumatore (per esempio, è per questo che la carota, da viola che era, è stata resa arancione).
Sia gli incroci tradizionali che i PAGM sono basati sulla modificazione del patri-monio genetico della specie oggetto dell’intervento. Per i primi la modificazione è realizzata con il trasferimento casuale, incontrollato e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni; per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati. Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle specie originarie .
A questo proposito va tenuto presente che – come hanno ricordato alcune migliaia di scienziati sottoscrivendo un documento di sostegno per l’incremento delle ri-cerche biotecnologiche e dell’utilizzazione dei PAGM – non vi è prodotto alimen-tare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi: ogni varietà vegetale, comunque ottenuta, può produrre effetti indesiderati e talvolta dannosi. Sotto questo profilo non c’è differenza tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.
Questo significa che non solo gli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione genetica, ma tutti le varietà vegetali possono produrre effetti negativi e dannosi sull’ambiente o sulla salute umana; è quindi privo di senso imputare questo peri-colo solo ai primi, dopo che per centinaia e centinaia di anni si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi degli incroci tradizionali, in considerazione dei benefici ottenibili.
Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie: solo specie che si assomigliano possono essere incro-ciate al fine di ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili, come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi, non posso essere incrociate. Al contrario, le tecnologie che utilizzano il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così i c.d. or-ganismi transgenici.
Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano ad ot-tenere incroci che non si riescono ad ottenere con le tecniche tradizionali non si-gnifica che solo i primi siano “innaturali”.
Se con il termine natura si intende una realtà non toccata o non trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali e tecniche di inge-gneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali. In entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico). E – per quanto già detto – so-no innaturali la quasi totalità dei prodotti alimentari oggi utilizzati.
La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni sono a disposizione.
È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono – che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità degli incroci tradizio-nali e l’inaccettabilità dei PAGM, e quindi divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la salute.
4. La popolazione mondiale.
Siamo attualmente più di 6 miliardi di esseri umani.
Eravamo 3.5 miliardi nel 1968.
L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.
Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3\1,4% (era 2,1% nel 1968). Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale è destinata a raddop-piare in cinquanta anni: questo significa 12 miliardi di persone nel 2050. Ma è probabile che il tasso decresca nel prossimo futuro (con il migliorare delle condi-zioni di vita, soprattutto delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.
Secondo previsioni delle Nazioni Unite del 1996, recentemente aggiornata e rivi-sta, si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi nel 2025 e di 9 o 10 miliardi di persone nel 2050 (con una stabilizzazione finale della crescita a 11 miliardi verso il 2200) . Inoltre, nel 2050 circa 9 persone su 10 vivranno nei pae-si in via di sviluppo.
5. L’agricoltura mondiale nel ventesimo e ventunesimo secolo.
Prima del ventesimo secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate .
A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, con l’avviarsi dell’utilizzazione prati-ca di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove varietà delle specie più coltivate più resistenti o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttivi-tà, prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.
Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco au-menta negli Stati Uniti del 60%.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione di nuove varietà più produttive o più resistenti (che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme all’uso dell’azoto come fertilizzante e in-sieme a consistenti investimenti in opere di irrigazione sono le componenti della c.d. Rivoluzione verde che dapprima coinvolge l’Asia e l’America latina e comincia a far sentire i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.
Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza di cibo nei paesi in via di sviluppo che Ehrlich aveva previsto come inevitabile .
Queste tre colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre coltivate (che am-montano a circa il 35% della superficie terrestre, escluse le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di nutrimento della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle calorie presenti nella dieta umana . A partire dal 1967, la produzione di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta destinare ad uso agricolo un’area della dimensione dell’intera Amazzonia , e questo dimostra gli incalcola-bili benefici di carattere ambientali provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivo-luzione Verde).
La situazione attuale è quindi ben diversa da quella prevista da Ehrlich e da molti neo-malthusiani degli anni Sessanta: nel periodo di circa quarant’anni la popola-zione mondiale è effettivamente raddoppiata, ma è più che raddoppiata la disponi-bilità di cibo, sia pure in modo diseguale tra paesi sviluppati e paesi in via di svi-luppo. Il risultato è che nei paesi sviluppati il problema è non la carenza, ma l’eccesso di cibo, e quindi la necessità di sostenere i prezzi e proteggere la produ-zione agricola (i prezzi dei prodotti alimentari, proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti in media di circa due terzi ri-spetto al prezzo del 1957) . A questo proposito, deve osservarsi che la rallentata crescita della produzione di cibo nella seconda metà degli anni Novanta non di-pende – come molti ritengono – dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione Verde, ma da deliberate scelte di politica agricola dei paesi ricchi, che hanno così cercato di limitare il surplus .
Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo visto, il numero di persone cro-nicamente sottonutrite nel mondo: erano – secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio de-gli anni Settanta, sono nel 1997 circa 800 milioni di persone .
Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti di carattere am-bientale, economico e politico. Essendo determinata da tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando coloro che sono riusciti a tenere il passo con i paesi ricchi e danneggiando chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei paesi ricchi era sette volte più efficiente di quella dei paesi poveri; nel 1985, trentasei volte .
6. La produzione di cibo: previsioni per il futuro.
Torniamo ora al tema centrale di questo articolo.
Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro sono di estre-ma importanza per valutare se i PAGM siano utili o indispensabili per affrontare il problema del nutrimento dell’accrescersi della popolazione mondiale o quantome-no per evitare un incremento delle persone sottonutrite e affamate nel mondo. E la necessità di capire se i PAGM siano necessari, o magari soltanto utili, dipende anche dal fatto che negli anni Novanta del secolo passato, salvo che in Africa, gli effetti delle tecnologie utiizzate per realizzare la Rivoluzione Verde sembrano es-sersi approssimati al limite fisiologico; anche in molti paesi asiatici la produzione, dopo essere incessantemente salita fino ai primi anni Novanta si è poi mantenuta stabile .
Naturalmente le previsioni in questo campo sono assai ardue, per la molteplicità di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare, si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi degli esperti e degli scienziati pro-prio con riferimento all’impiego di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale, mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).
Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone sottonutrite nel futuro.
Secondo il rapporto della Royal Society (che è nettamente favorevole all’utilizzazione dei PAGM) l’attuale cifra di 800 milioni di persone sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno consistenti modificazioni sulle cause che generano il sottonutrimento .
Invece, secondo altre stime (per esempio, la stima della FAO del 1996) il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a calare, riducendosi nel 2050 sulla quantità di 600 milioni .
Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività, e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura. Ciò per due ragioni. Prima di tutto, perché le aree disponibili e in concreto utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione, ecc.) , sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni; poi perché una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali produrrebbe costi economici e orga-nizzativi difficilmente sopportabili per molti paesi e, inoltre, un aumento non so-stenibile dell’inquinamento ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat naturale e della biodiversità).
La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della resa delle colti-vazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla Rivoluzione Verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche), senza provocare danni non soste-nibili all’ambiente, in modo da soddisfare il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione mondiale.
A questa domanda hanno cercato di dare risposta negli ultimi anni molti esperti di statistica, di economia agricola, e di politiche di intervento pubblico nell’economia..
Partiamo con dei dati.
La crescita della domanda di cibo, relativamente alle quattro specie esaminate, è stata stimata fino al 2020 in misura di 1,2% all’anno per cereali e riso, 1,5% per granturco .
Questo significa che sarà necessario un aumento di produzione del 44% per i ce-reali, del 43% per il riso e del 56% per il granturco, rispetto alle quantità attuali, da ottenersi senza un sostanziale aumento di terre coltivate.
Molti studi sono stati compiuti per verificare quale sia la produttività massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate; tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie specie nelle migliori condizioni am-bientali e tecnologiche possibili, la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive nei paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie che per-mettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul metabolismo delle piante .
Posto questo limite, le previsioni non sono per nulla pessimistiche.
Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una produzione di circa 3 miliardi di tonnellate di cereali per soddisfare la domanda mondiale di cir-ca 8 miliardi di persone nel 2025 può essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le tecniche attualmente in uso, solo aumentando la produtti-vità dei paesi meno avanzati in modo da portare la produzione ai livelli già rag-giunti dai paesi ricchi, anche se saranno necessari imponenti processi di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione dei prodotti alimentari, eliminando gli sprechi che ora caratterizzano il sistema agroalimentare mondiale .
In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione globale di cibo dovrebbe continuare nella tendenza al miglioramento .
7. Molto cibo, ma maldistribuito.
La quantità globale di cibo sarà quindi sufficiente, secondo la maggior parte delle previsioni, a far fronte alla domanda globale della popolazione nei prossimi tre\quattro decenni; ma questo dato non è di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema della fame nel mondo.
Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente in rapporto alla po-polazione e alle previsioni di crescita. Anzi: si è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante nei paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo, mentre è oggi deficitaria nei paesi poveri – soprattutto in Africa e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita della popolazione.
Per queste ultime aree, destinate a ricevere il maggior incremento di popolazione, non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata popolazione.
Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di trasferimento di cibo dai paesi ric-chi (ove la produzione è in eccedenza) ai paesi in via di sviluppo.
“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”. Questo ammonimen-to impartito dai genitori ai figli della mia generazione (mi riferisco agli anni Cin-quanta del secolo scorso), dovrebbe quindi essere destinato a divenire di pressan-te attualità nel futuro.
Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei paesi ricchi verso le capanne dei paesi poveri. Pertanto è proprio sulla realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori preoccupazioni.
Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà essere realiz-zato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il commercio mondiale dei prodotti ali-mentari è stato solo sfiorato dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione (non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore devastante per le economie dei paesi ricchi); dal punto di vista or-ganizzativo-logistico; infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli affamati dei paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquista-re sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei paesi ricchi.
In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta con l’abbondante domanda; ma nes-suno indica la strada per risolvere questo problema. Molti però ritengono che non sia questo il problema.
8. La fame dipende davvero dalla mancanza di cibo?
L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo cibo dai paesi ove è sovrabbondante ai paesi ove manca è ritenuta da molti irrea-lizzabile e errata.
Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza di cibo: è la di-seguaglianza.
È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale non vi è colle-gamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna che la gente muore di fa-me in presenza di sovrapproduzione di cibo al quale però non ha accesso per mancanza di mezzi . La causa della fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà. Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della doman-da .
Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali viene prodot-to oggi sarà inutile in futuro, come è inutile oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.
La fame è determinata quindi, come sostengono gli ambientalisti di oggi, a diffe-renza degli ambientalisti di alcuni decenni orsono, non da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di mezzi per procurarsi il cibo . In questa prospettiva, ciò che risulta necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare inattuabili trasferimenti.
Questo significa che la fame nei paesi in via di sviluppo può e deve essere affron-tata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione agricola e non tan-to organizzando complessi meccanismi redistributivi, ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali, politiche, di educazione, di e-guaglianza e non discriminazione, di buon governo che permettono di incremen-tare il benessere della collettività e quindi di incrementare i mezzi economici ne-cessari per acquisire il cibo necessario sul mercato o per coltivarlo. La fame si combatte con la giustizia sociale.
In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della Rivolu-zione Verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione Sovietica, e fino al 200% nell’Africa Subsahariana, a condizione che sia mantenuta la stabilità politi-ca e sia favorita l’iniziativa privata nel settore agricolo .
9. Politiche agricole per i paesi in via di sviluppo: l’utilità dei PAGM.
Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.
L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva, dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso il nutrimento futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.
Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento della pro-duttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario trasferimento di cibo dai paesi ricchi ai paesi poveri, la soluzione basata sull’aumento di giustizia sociale in que-sti ultimi nei prossimi tre\quattro decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quan-tomeno per la maggior parte dei paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, ineffi-cienza amministrativa e sprechi.
In proposito, è stato osservato che è certamente vero che centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo o per coltivarlo; ma il problema per la grande mas-sa degli affamati non è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro sussistenza .
Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è povero, è altrettanto vero che è povero perché non ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è arido, l’acqua per irriga-re manca, e così via. È questo lo scenario che caratterizza una grande numero di paesi in via di sviluppo, dall’Africa all’Asia, ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale, ma anche dei mercati locali. E non è assolutamente credibile ipotizzare una radi-cale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida adozione di politi-che di giustizia sociale.
Ecco che allora si profila l’utilità dei PAGM per uno specifico settore di mercato, quello dell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo.
Non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa all’adozione nei paesi in via di sviuppo di politiche sociali e agricole che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento finalizzato a soddisfare la domanda di sopravvivenza – che vuol dire essenzialmente domanda di modeste quantità di cibo e di basilare assistenza sa-nitaria – di chi sta nei paesi in via di sviluppo, e non ha accesso né al mercato, né alla giustizia sociale; il che significa alcune centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui hanno bisogno.
In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare tutte le sue poten-zialità, creando PAGM resistenti ai parassiti, alla mancanza di acqua, e in genera-le alle difficili condizioni ambientali.
Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quail si è riuscito ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai parassiti, un consistente aumento della produttività .
Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio, un problema comu-ne dei suoi con elevato tasso di acidità, assai diffusi nei paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma anloghi prodotti sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la concentrazione di mercurio nel terreno. Altri scienziati all’università di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua. Un altro gruppo di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene, che nel processo digestivo può essere convertito in Vitamina A (di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambi-ni, con due milioni di morti per cause connesse alla deficienza di questa vitami-na). È anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo ri-spetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza di questo minerale. In Kenya è stata realizzata una patata dolce transgenica che è resistente ad un distruttivo virus . Si sta rivelando di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i PAGM a fini di assistenza sanitara: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei paesi in via di sviluppo ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa da diffi-coltà organizzative, logistiche o finanziarie .
L’elenco potrebbe continuare.
Ma già questi esempi impongono di rifletter sul fatto che, se il reale problema è quello di creare fonti di nutrimento lì dove ci sono le persone che ne hanno biso-gno, l’uso dei PAGM può costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo di tre\quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabi-li trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili ri-forme istituzionali nei paesi in via di sviluppo, ma soltanto nella disponibilità del-le sementi necessarie: cioè di beni il cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.
10. Lo scontro sui PAGM: gli attori.
Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola il confuso sce-nario dello scontro sui prodotti geneticamente ricombinati comincia a sgranarsi nelle sue componenti, e le singole posizioni cominciano ad assumere una forma e un significato.
Partiamo dagli oppositori dei PAGM.
Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti e l’opinione pubblica che a loro fa ri-ferimento.
I gruppi ambientalisti tengono essenzialmente conto della situazione di benessere economico e ambientale dei paesi ricchi, cioè dei paesi in cui si trovano i loro ade-renti, i loro finanziatori, e l’opinione pubblica che li sostiene, dove si trovano i consumatori e le loro associazioni.
Per tutti costoro, il rifiuto dei PAGM non comporta alcuna conseguenza negativa sul tenore di vita e sul benessere alimentare: essi offrono infatti la possibilità di una superflua aggiunta di cibo in una situazione in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame . L’introduzione dell’uso dei PAGM, per converso, non porta alcun beneficio: non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché ogni rischio per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato.
Come ha detto Jacques Diouf, Direttore generale della FAO nel suo discorso i-naugurale dell’Assemblea generale svoltosi a Roma nel giugno del 2002, “Non è un loro problema”.
I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.
Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale – di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazioni-sta), per i quali la lotta ai PAGM costituisce un ottimo strumento per impostare battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli); hanno inoltre il so-stegno del frastagliato movimento antiglobalizzazione, per il quali la lotta ai PAGM assume il significato di lotta contro l’estendersi a livello mondiale del potere eco-nomico e tecnologico delle multinazionali americane.
Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti di forza economi-co-politici dei paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare tradizionale: i conta-dini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni politico-sindacali che li rap-presentano, i vari settori produttivi della coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi, pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale mo-do di produzione) e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di merca-to, e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera convergono.
Per tutti costoro, l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM presentano il rischio di seri danni: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico gioco di prestigio i-stituzionale-giuridico-economico su cui si regge il sistema agroalimentare dei pa-esi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra eccesso di produzione e garanzia di profitti.
Se passiamo dall’altra parte dello schieramento, tra i sostenitori dei PAGM e tra coloro possono trarre benefici, emergono dalla indistinta moltitudine attori che ri-vestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da quando il dibattito si è focaliz-zato sul tema agricolo e alimentare, e che paiono essere i veri destinatari dei PAGM: tutte le diecine e diecine di milioni di persone che popolano i paesi in via di sviluppo, che non hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai spesso, an-che con l’indifferenza dei governi dei loro paesi.
Per costoro, l’utilizzabilità di PAGM adatti alle loro necessità e ai loro bisogni si-gnifica la chance di oltrepassare la linea rossa della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza, a partire dalla disponibilità di poche se-menti .
Ci sono poi le potenti – e famigerate – multinazionali dell’agroalimentare, cioè le organizzazioni che sui PAGM hanno investito ingentissime risorse e hanno pro-gettato enormi profitti.
Ma proprio queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.
Ed infatti i PAGM, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata tecnologia dei paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi, salvo che per alcune produzioni di nicchia, dei beni inutili e forse anche dannosi proprio per i paesi ricchi ove pos-sono soltanto aggravare il problema della sovrapproduzione agricola e quindi al-terare il precario equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione che lì tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato agroali-mentare. Nello stesso tempo, i PAGM si profilano dei beni preziosi e indispensabili per i paesi in via di sviluppo, e per i più poveri tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare gli investimenti dei produttori dei PAGM.
Così, i principali sostenitori dell’uso dei PAGM, le multinazionali della biotecnolo-gia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché possono pagarli, e nel contempo la do-manda e il bisogno di quegli stessi prodotti da parte di una massa di possibili consumatori non in grado di far fronte ai costi.
Gli attori però non finiscono qui.
Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei paesi ricchi – soprattutto in Europa -, stretti da un lato dalla pressione della domanda dell’opinione pub-blica e dalla struttura agroalimentare tradizionale, contraria all’uso dei PAGM, d’altro lato da necessità – non tanto e non solo do carattere altruistico, ma di ga-rantire margini di complessiva stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare le ne-cessità alimentari del prossimo futuro dei paesi in via di sviluppo. Tutti questi go-verni si trovano nella peggiore delle posizioni, si trovano cioè di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno, ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie per le generazioni future non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche dei paesi ricchi.
Ci sono anche i governi dei paesi in via di sviluppo, che si trovano assai spesso in una situazione non migliore: dovrebbero decisamente optare per l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere per gli strati più poveri della popolazione e così alterare alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradi-zioni e di consuetudini dei paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni, e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro potere.
11. Conclusioni.
Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più precise la moltitudine degli attori sulla sce-na dello scontro sui PAGM e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano così certezze acquisite e vengono allo scoperto pregiudizi e ideolo-gie sulla base delle quali esse sono state costruite.
Molti sostenitori dei PAGM, bollati come ingenui amanti del progresso, oggettiva-mente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano schierati a difesa della ne-cessità di garantire la sopravvivenza alimentare nei paesi in via di sviluppo.
Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei PAGM, sostenuti dai movimenti di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere schierati con i settori più conservatori delle società ricche, difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale, egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze di chi, nei paesi in via di sviluppo, muore di fame.
Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione di ci-bo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di una trasformazione in senso de-mocratico dei paesi in via di sviluppo, ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè come sarà possibile l’incontro dell’offerta di PAGM da parte delle multinazionali che sui PAGM detengono la proprietà intellettuale, alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati, con la domanda dei paesi in via di svi-luppo che, come si è detto, sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.
Ed ecco così che, alla fine di questo scritto, scopriamo che il problema davvero centrale dell’utilizzazione dei PAGM diventa non quello etico dal quale lo scontro sui PAGM ha preso le mosse, né quello di economia distributiva, né quello della politica agricola, e neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel mondo globalizzato.
[1] United States Department of Agriculture Economic Research Service (ERS), Biotech corn and soybeans: Changing markets and the government’s role, 2000, Washington, DC. [torna su]
[2] Richard Lewontin, Genes in the Food!, in NYRB June 21, 2001 [torna su]
[3] Nel dicembre del 1996 la Commissione dell’UE, dopo aver ottenuto il parere favorevole di tre or-ganismi consultivi, ha autorizzato la commercializzazione del granturco geneticamente modificato (con un brevetto Novartis) con un gene che rendeva il prodotto resistente non solo contro un erbi-cida e un parassita, ma anche contro un antibiotico (l’ampicillina). Da allora, il granturno modifi-cato è coltivato in Spagna, in Francia e in Portogallo. Subito dopo, Austria e Lussemburgo hanno vietato l’uso del granturco modificato sul loro territorio. La Commissione ha ritenuto illegittima la decisione dei due paesi membri, ma nessuna iniziativa è stata adottata da parte dell’UE per otte-nere l’eliminazione dei divieti, che sono quindi tuttora in vigore. Nel frattempo, a seguito di un giudizio promosso in Francia da Greenpeace e da Friends of the Earth, il Conseil d’Etat nel settem-bre del 1998 ha sospeso la commercializzazione del granturco modificato, rimettendo la questione della corretta applicazione dell’art.16 della Direttiva 90\220\EC sui prodotti geneticamente modi-ficati alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel febbraio 2000 anche la Germania ha sospeso la commercializzazione del granturco modificato, a seguito della diffusione di dati – duramente contestati nella comunità scientifica – che indicavano che il granturco modificato da Novartis ri-sultava tossico anche per una farfalla (Monarca) ed inoltre che le componenti tossiche del gran-turco permanevano per varie settimane nel suolo, danneggiando la riproduzione di vari tipi di in-setti (sul punto, si veda MELDOLESI, …). Nel febbraio 2001 l’UE ha adottato una nuova direttiva (sostitutiva della direttiva 90\220\EC) qualificata come la normative più restrittiva del mondo in materia di GMO. L’annunciata intenzione della Commissione di revocare la moratoria è duramen-te contestata da vari Stati membri, tra cui l’Italia e la Francia. Sull’atteggiamento europeo si veda G. Gaskell, Agricultural biotechnology and public attitudes in the European Union in AgBioForum, 2000 3(2&3), 87-96, consultabile in www.agbioforum.org/vol3no23/ vol3no23ar4gaskell.htm [torna su]
[4] Il Saggio sulla popolazione di Thomas Malthus, la cui prima edizione è del 1798, divenuta imme-diatamente un best-seller, è centrato, come è noto, sull’idea della limitatezza delle risorse naturali e del necessario sopravanzare della popolazione sulla disponibilità di mezzi di sussistenza, con ca-tastrofiche conseguenze (morti, carestie, guerre). Queste previsioni sono state poi attenuate nella seconda edizione del 1803 (e ridotte a vincoli legali e istituzionali). A questa prima fase segue per Malthus un periodo più ottimista, rappresentato dai “Principles of Political Economy” del 1820 (qualificato assai sbrigativamente da Marx nella Storia delle teoria economiche “un vero modello di imbecillità mentale”). Su Malthus è illuminante il saggio di Piero Barucci che funge da introduzio-ne ai Principi, pubblicati in edizione italiana da ISEDI nel 1972. [torna su]
[5] Ballantine Book, 1968. [torna su]
[6] E’ sufficiente ricordare l’opera forse più celebre dopo quella di Malthus, e più nota di quella di Ehrlich, su questo tema: Donella H. Meadows e altri, The Limits to Growth: A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, 1972. [torna su]
[7] Si veda per esempio l’articolo di Gregory Conko – Fred Smith, Jr., Biotechnology and the Value of Ideas in Escaping the Malthusian Trap, in 2 AgBioForum n.2, 1999, pag.150,consultabile al sito www.agbioforum.org/ vol2no34/conko.pdf. [torna su]