Is Suicide Terrorism a Costly War Strategy?

Genesis and Future of Suicide Terrorism
by Scott Atran

Is suicide terrorism a costly war strategy?
Stefano Nespor

Is suicide bombing a costly war strategy, as Scott Altran implies when he affirms that this strategy is chosen when fighting methods of lesser cost seem unlikely to succeed?
Let’s consider Napoleon’s wars, the First World War and even the America’s Secession War. All these wars were planned and implemented by the leaders as if the men’s supply would be unlimited and – in any case – not be a costraint. The problems that the leaders had to manage were others: the supply of foods, the control of the territory, the backing of the people. These were very costly wars indeed, in terms of lives.

Today, the civilized countries could never afford such a strategy, simply because the people would not agree to be used as a tool for pursuing even legitimate goals. Today’s wars are “clean”: in this respect, the U.S. wars in Iraq are not different from suicide bombings. Both strategy represent a clean war: of course because they spare their men, not because they spare their enemies.

Today, the governments and the leaders that decide to start a war are compelled a) to practise strategies that use a minimum of human lifes of their men, and b) to show to everybody that they are trying to implement this strategy, even if the total cost of lifes – comprehensive of the enemies’ lives – is high. Doesn’t matter if you kill hundreds of civilians and if you destroy houses and monuments: the war is clean if your men get back home alive.

Only clean wars in the mentioned terms receive the support of the civilized nations. Traditional, dirty wars are left to underdeveloped nations.

But if in terms of men’s supply U.S. wars are very similar to suicide bombings, both being the less costly possible war, they are consistently different in terms of financial and political investments.

For U.S. to maintain the war clean, means a huge financial investment. On the contrary, for the leaders of suicide bombings, the clean war requests a very low financial investmens. In this respect, suicide bombing is the most effective modern way of making a war.

You must invest in ideology that persuades somebody to sacrifice his life for a superior goal.

For President Bush and Mr Blair would have been very difficult to persuade a single man in their respective countries to become a suicide bomber against Saddam, in defense of the Western democracy or freedom.

For the organiser of suicide bombers, this type of ideology is free, is part of the culture where God, religion, tradition, authority still have a strong impact on the education of the people.
Stefano Nespor

A chi servono i prodotti geneticamente modificati?

“Non è un loro problema”
Jacques Diouf,
Assemblea Fao, giugno 2002

1. I prodotti agricoli geneticamente ricombinati: trent’anni di scontri.

Attentato all’integrità della natura, pretesa di sostituirsi a Dio o espressione della capacità dell’ingegno umano di adattare la realtà e la natura ai propri bisogni? Cibo avvelenato o cibo esattamente uguale a quello che si è usato in migliaia di anni di trasformazioni naturali? Strumento di distruzione o di incremento della biodiversità? Mezzo per sottoporre l’agricoltura mondiale al controllo di poche multinazionali avide di profitti, o panacea per eliminare il problema della fame nei paesi più poveri?

Queste sono le alternative che si contrappongono nelle discussioni in merito alle ricombinazioni genetiche applicate all’agricoltura, e quindi dei prodotti agricoli geneticamente modificati, che chiameremo d’ora innanzi PAGM.

Fin dall’inizio degli anni Settanta, quindi ben prima della loro concreta immissio-ne e diffusione sul mercato, i PAGM sono stati al centro di uno scontro che ha ri-guardato non tanto le regole più appropriate da applicare per utilizzare questi prodotti garantendo la sicurezza dell’ambiente e la salute dei consumatori, ma l’ammissibilità da un punto di vista etico e ambientale della loro produzione e del loro uso: un vero e proprio scontro ideale tra opposte visioni del mondo.

Attualmente, i PAGM sono divenuti, con una crescita costante, una componente importante della produzione agricola mondiale (anche se le aree agricole interes-sate sono concentrate per il 99% in soli tre paesi: Stati Uniti, Argentina e Canada, mentre il residuo 1% è suddiviso tra Cina, Australia e Sudafrica): complessiva-mente erano coltivati con PAGM nel 1996 1,7 milioni di ettari, divenuti 11 milioni nel 1997, 27,8 milioni nel 1998, e 39,9 mil nel 1999.[1]

Analoga è stata la crescita in termini economici: si è passati da un volume d’affari di 75 mil $ nel 1995, a 2.2 miliardi $ nel 1999, a 3 miliardi $ nel 2000; il volume d’affari è previsto di 25 miliardi $ nel 2010 .

Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei PAGM non è però diminuito di intensità: osserva in proposito Richard Lewontin che l’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura ha provocato reazioni ed emozioni come mai si erano viste nella storia della innovazione tecnologica: neppure i disastri di Three Miles Island e di Cernobyl hanno determinato nell’opinione pubblica una ostilità nei confronti dell’energia nucleare analoga a quella esistente nei confronti dei GM.[2]

Il confronto si è però spostato dalla ammissibilità teorica dell’uso dei PAGM ai problemi connessi con il loro uso concreto.

Due sono le caratteristiche che il confronto ha assunto in questa seconda fase.

In primo luogo una molteplicità di temi di carattere scientifico, giuridico o pratico: sanitari, agricoli, ambientali, economici e proprietari ha sostituito al centro della scena gli aspetti etici e politici, che avevano polarizzato la fase iniziale del dibatti-to.

Ma questi ultimi non sono affatto scomparsi. Anzi, nella maggior parte dei ca-si le prese di posizione sono ancora determinate non dall’acquisizione di dati scientifici e da valutazioni razionali, ma da scelte di campo operate pregiudizial-mente e fidesticamente in base a quei postulati etici o politici formalmente scomparsi.

In secondo luogo, si è verificata una radicalizzazione geografica, ed è penetrata nelle relazioni internazionali, materializzandosi nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Europea in merito alla coltivazione e alla commercializzazione di PAGM. L’UE mantiene infatti – soprattutto per le sollecitazioni di taluni Stati membri – una posizione di sostanziale blocco dell’utilizzazione di PAGM.[3]

Anche in questo caso ci sono, non dichiarati, aspetti che dipendono dai diversi in-teressi economici, agricoli e soprattutto di concorrenza e di struttura socio-agricola dei due blocchi.

Non va dimenticato infatti che l’agricoltura tradizionale è praticamente scomparsa negli Stati Uniti (anche se sopravvive nell’immaginario dell’opinione pubblica), mentre è assai forte, come componente sociale e politica, in molti paesi dell’Unione Europea attuale, e soprattutto nei paesi che sono pros-simi a farne parte (i paesi dell’Est Europa, in precedenza inseriti nel blocco dell’Unione Sovietica).

Ma vi è un terzo aspetto dell’attuale confronto, ed è costituito dal quasi parados-sale scambio delle parti tra sostenitori e oppositori dei PAGM, sul quale vale la pena di soffermarsi.

2. Il balletto malthusiano.

“La battaglia per raggiungere l’obiettivo di nutrire l’umanità è fallita. Negli anni Settanta centinaia di milioni di persone saranno condannate a morire di fame”.

Così esordiva il libro che ha rappresentato l’opinione ambientalista neomalthusiana [4] degli anni Sessanta del secolo scorso, The Population Bomb di Ehrlich [5].

Si è trattato di una previsione certamente errata, ma coerente con la tradizionale impostazione ambientalista di preannunciare catastrofi ecologiche tendenzial-mente irrimediabili per mobilitare l’opinione pubblica e creare consenso: tra que-ste una delle colonne portanti era proprio quella dei limiti della crescita e dell’imminente tracollo delle risorse disponibili – e in particolare dell’insufficienza del cibo – a fronte dell’aumento della popolazione .
Viceversa, i sostenitori del progresso hanno sempre irriso gli annunci catastrofici degli ambientalisti, ritenendo che, come in passato, le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche avrebbero permesso di affrontare e superare le difficoltà.
La comparsa sulla scena dei PAGM, che – secondo una opinione diffusa – potreb-bero eliminare o attenuare il problema della fame mondiale, ha comportato un imprevedibile scambio delle parti.
Infatti gli ambientalisti, posti di fronte alla scelta tra la catastrofe per fame e la catastrofe da innovazione tecnologica, hanno optato per quest’ultima soluzione e hanno quindi scelto l’opposizione ai PAGM, abbandonando il pericolo neomalthu-siano e tutte le argomentazioni connesse con i limiti della crescita.
Ed infatti, la tesi più diffusa attualmente tra gli ambientalisti è quella prospettata da Amartya Sen, secondo la quale il problema della fame non dipende dalla man-canza di cibo o da limiti della natura, ma dalle relazioni socioeconomiche: l’obiettivo è quindi quello di agire su quelle cause, mentre l’innovazione tecnologi-ca costituita dai PAGM permette un inutile aumento della produzione, provoca incontrollabili rischi per l’ambiente e per la salute e non risolve il problema della povertà[6] .
Un percorso diametralmente opposto hanno ovviamente dovuto seguire i fautori del progresso.
Questi, per sostenere la necessità o quantomeno l’utilità dei PAGM hanno accen-tuato il pericolo di catastrofi alimentari nel prossimo futuro: l’accrescersi del pro-blema della fame nel mondo e, più specificatamente, dei problemi agricoli e sani-tari che si proporranno, in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, per effetto dell’incremento della popolazione mondiale . Secondo costoro, i PAGM permetto-no di evitare questi pericoli, in quanto consentono di aumentare quantitativamen-te e migliorare qualitativamente la produzione di cibo, di incrementare le compo-nenti nutrizionali di singoli prodotti, di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura (consistente nella deforestazione e nell’uso di fertilizzanti e pesti-cidi chimici). Viceversa, senza l’uso di tecniche biotecnologiche, e ricorrendo e-sclusivamente alle tecniche tradizionali, sarà assai difficile, e per molti impossibi-le nutrire i 9.4 miliardi di persone che, secondo le stime, popoleranno la terra nell’anno 2050 .
Recisamente in questo senso sono, per esempio, le conclusioni del Rapporto “Transgenic plants and world agriculture” predisposto dalla Royal Society del Re-gno Unito : “La nostra conclusione è che bisogna agire per venire incontro agli ur-genti bisogni di pratiche agricole sostenibili a livello mondiale, e se si vuole soddi-sfare la domanda di cibo di una popolazione mondiale in continua espansione sen-za distruggere ulteriormente l’ambiente e le risorse naturali. A tal fine, la tecnologia genetica, insieme alle altre tecnologie, deve essere usata per incrementare la pro-duzione dele principali fonti di cibo, per migliorare l’efficienza della produzione, per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura e per agevolare la vita dei piccoli pro-duttori” .
Tutto ciò porta inevitabilmente l’opinione pubblica a privilegiare scelte determina-te dalla fiducia o dall’affinità con uno dei due schieramenti in campo, piuttosto che da un interesse verso la conoscenza dei dati scientifici e verso una analisi senza pregiudizi dei dati scientifici e da scelte pacate e razionali.
*
Il tema degli effetti dell’espandersi dell’utilizzazione dei PAGM sul problema della sottonutrizione e della fame nei paesi in via di sviluppo e più in generale sull’aumento della popolazione mondiale ha acquisito quindi una decisiva impor-tanza nel dibattito concernente la ragionevolezza della utilizzazione futura di pro-dotti geneticamente ricombinati. Ed infatti, a fronte dell’ opposizione ambientali-sta all’uso delle tecniche genetiche applicate all’agricoltura, la insistenza sull’esistenza di un interesse generale e collettivo – e non solo dei produttori, le multinazionali della filiera agroalimentare – per l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM può essere giustificata solo se viene dimostrata la necessità, o quanto me-no l’utilità dei PAGM per adeguare la futura produzione agricola ai bisogni della popolazione.
È però necessario offrire al lettore alcuni dati che permettono la comprensione delle argomentazioni che saranno svolte.

3. Incroci tradizionali e PAGM.
Tutte le attuali coltivazioni agricole sono il risultato di lente e continue selezioni operate attraverso i secoli, finalizzate a migliorare la produttività, i valori nutri-zionali, la resistenza alle malattie, il gusto, ed anche l’odore e il colore.
Questo significa che tutti gli attuali prodotti dell’agricoltura sono diversi dalle specie originarie, dal loro “prototipo” naturale. La maggior parte di essi – in Euro-pa oltre il 90% – deriva da specie che hanno avuto origine in luoghi diversi da quelli in cui esse sono attualmente coltivate, e sono quindi state importate nei luoghi ove sono attualmente coltivate modificando in modo sostanziale e irrever-sibile le condizioni naturali originarie.
Inoltre, molte delle specie da cui hanno tratto origine le specie oggi coltivate sono ormai estinte: sopravvivono ormai solo gli incroci.
In Europa, più del 90% dei prodotti alimentari appartiene a questa categoria.
Gli incroci e le clonazioni effettuati con tecniche tradizionali hanno lo stesso o-biettivo degli organismi prodotti con l’ingegneria genetica, cioè con tecniche con-sistenti nell’estrarre (con varie modalità ) il DNA corrispondente a uno o più geni specifici da un organismo “donatore” e nell’inserirlo nella cellula di un organismo ricevente. L’obiettivo è quello di ottenere varietà che offrono una resa quantitati-vamente o qualitativamente migliore, incrementando la resistenza alle condizioni ambientali in cui viene coltivata (per esempio aridità del terreno, temperature più basse o più elevate di quelle necessarie per la coltivazione della varietà non modi-ficata), oppure incrementando la resistenza a parassiti o malattie proprie della specie su cui si interviene, o infine incrementando la resistenza a prodotti pesti-cidi o antiparassitari che debbono essere utilizzati. L’obiettivo può anche essere quello di ottenere varietà vegetali più pregiate perché gustose, più gradevoli, più attraenti per il consumatore (per esempio, è per questo che la carota, da viola che era, è stata resa arancione).
Sia gli incroci tradizionali che i PAGM sono basati sulla modificazione del patri-monio genetico della specie oggetto dell’intervento. Per i primi la modificazione è realizzata con il trasferimento casuale, incontrollato e potenzialmente rischioso, di migliaia o diecine di migliaia di geni; per i secondi con l’inserimento mirato di uno o più geni predeterminati. Proprio per la casualità del risultato, l’incrocio di specie effettuato secondo metodi tradizionali ha in vari casi prodotto nuove specie tossiche per l’uomo, o specie più resistenti a determinati parassiti e in taluni casi le specie incrociate hanno determinato l’estinzione delle specie originarie .
A questo proposito va tenuto presente che – come hanno ricordato alcune migliaia di scienziati sottoscrivendo un documento di sostegno per l’incremento delle ri-cerche biotecnologiche e dell’utilizzazione dei PAGM – non vi è prodotto alimen-tare, comunque ottenuto, che sia esente da rischi: ogni varietà vegetale, comunque ottenuta, può produrre effetti indesiderati e talvolta dannosi. Sotto questo profilo non c’è differenza tra pratiche tradizionali e nuove tecnologie.
Questo significa che non solo gli incroci ottenuti con tecniche di ricombinazione genetica, ma tutti le varietà vegetali possono produrre effetti negativi e dannosi sull’ambiente o sulla salute umana; è quindi privo di senso imputare questo peri-colo solo ai primi, dopo che per centinaia e centinaia di anni si sono sopportati i rischi degli effetti dannosi degli incroci tradizionali, in considerazione dei benefici ottenibili.
Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie: solo specie che si assomigliano possono essere incro-ciate al fine di ottenere varietà nuove e diverse, mentre specie non compatibili, come pure specie appartenenti a generi (vegetale ed animale) diversi, non posso essere incrociate. Al contrario, le tecnologie che utilizzano il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così i c.d. or-ganismi transgenici.
Naturalmente, il fatto che con le tecniche di ingegneria genetica si riescano ad ot-tenere incroci che non si riescono ad ottenere con le tecniche tradizionali non si-gnifica che solo i primi siano “innaturali”.
Se con il termine natura si intende una realtà non toccata o non trasformata dall’uomo, non c’è alcuna differenza tra tecniche tradizionali e tecniche di inge-gneria genetica: entrambe creano prodotti innaturali. In entrambi i casi l’uomo si è sostituito alla natura o a Dio (utilizzando le tecniche di volta in volta messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico). E – per quanto già detto – so-no innaturali la quasi totalità dei prodotti alimentari oggi utilizzati.
La differenza – e quindi l’eventuale diverso trattamento giuridico – è quindi tra prodotti alimentari parimenti innaturali, ma gli uni ottenuti artificialmente con tecnologie utilizzate da migliaia d’anni, gli altri ottenuti artificialmente, ma con tecnologie che solo da pochi decenni sono a disposizione.
È solo in questa differenza e nei loro specifici effetti – se esistono – che dovrebbero essere individuate le ragioni che determinano l’accettabilità degli incroci tradizio-nali e l’inaccettabilità dei PAGM, e quindi divieti o limitazioni alla coltivazione o alla commercializzazione di questi ultimi, sotto il profilo del pericolo per l’ambiente, o per la salute.

4. La popolazione mondiale.
Siamo attualmente più di 6 miliardi di esseri umani.
Eravamo 3.5 miliardi nel 1968.
L’aumento della popolazione è dovuto al generalizzato aumento dell’aspettativa di vita per effetto delle migliori condizioni di igiene, di assistenza sanitaria, alla maggiore disponibilità di acqua, al ridursi dell’inquinamento.
Il tasso di aumento della popolazione mondiale è oggi 1,3\1,4% (era 2,1% nel 1968). Al tasso di crescita attuale, la popolazione mondiale è destinata a raddop-piare in cinquanta anni: questo significa 12 miliardi di persone nel 2050. Ma è probabile che il tasso decresca nel prossimo futuro (con il migliorare delle condi-zioni di vita, soprattutto delle donne) e quindi l’aumento della popolazione sia più contenuto.
Secondo previsioni delle Nazioni Unite del 1996, recentemente aggiornata e rivi-sta, si dovrebbe giungere a una popolazione di circa 8 miliardi nel 2025 e di 9 o 10 miliardi di persone nel 2050 (con una stabilizzazione finale della crescita a 11 miliardi verso il 2200) . Inoltre, nel 2050 circa 9 persone su 10 vivranno nei pae-si in via di sviluppo.

5. L’agricoltura mondiale nel ventesimo e ventunesimo secolo.
Prima del ventesimo secolo, l’aumento della produzione agricola era determinato quasi esclusivamente dall’aumento delle aree coltivate .
A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, con l’avviarsi dell’utilizzazione prati-ca di nuove tecniche di ibridazione e con la creazione di nuove varietà delle specie più coltivate più resistenti o più prolifiche, comincia ad aumentare la produttivi-tà, prima negli Stati Uniti, poi, più tardi, in Europa e in Giappone.
Utilizzando queste tecniche, tra il 1935 e il 1975 la produzione di granturco au-menta negli Stati Uniti del 60%.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio la progettazione e l’utilizzazione di nuove varietà più produttive o più resistenti (che rendono possibile il passaggio da uno a due raccolti all’anno), insieme all’uso dell’azoto come fertilizzante e in-sieme a consistenti investimenti in opere di irrigazione sono le componenti della c.d. Rivoluzione verde che dapprima coinvolge l’Asia e l’America latina e comincia a far sentire i suoi effetti in Africa negli anni Novanta.
Tre colture – frumento, granturco e riso – sono state l’oggetto principale della Rivoluzione verde; essenzialmente per l’aumento della loro produzione nel corso dei trent’anni è stata evitata quella crisi da mancanza di cibo nei paesi in via di sviluppo che Ehrlich aveva previsto come inevitabile .
Queste tre colture oggi coprono circa la metà di tutte le terre coltivate (che am-montano a circa il 35% della superficie terrestre, escluse le ragioni polari); esse inoltre costituiscono le principali fonti di nutrimento della popolazione mondiale e compongono la maggior parte delle calorie presenti nella dieta umana . A partire dal 1967, la produzione di queste colture è aumentata tra il 79% e il 97% solo per effetto della maggior resa ottenuta utilizzando le nuove varietà, i fertilizzanti chimici azotati e moderne tecniche di irrigazione, e solo per una minima parte per l’aumento delle aree coltivate (in mancanza di aumento della produttività, per raggiungere lo stesso risultato si sarebbe dovuta destinare ad uso agricolo un’area della dimensione dell’intera Amazzonia , e questo dimostra gli incalcola-bili benefici di carattere ambientali provocati dalle tecnologie impiegate nella Rivo-luzione Verde).
La situazione attuale è quindi ben diversa da quella prevista da Ehrlich e da molti neo-malthusiani degli anni Sessanta: nel periodo di circa quarant’anni la popola-zione mondiale è effettivamente raddoppiata, ma è più che raddoppiata la disponi-bilità di cibo, sia pure in modo diseguale tra paesi sviluppati e paesi in via di svi-luppo. Il risultato è che nei paesi sviluppati il problema è non la carenza, ma l’eccesso di cibo, e quindi la necessità di sostenere i prezzi e proteggere la produ-zione agricola (i prezzi dei prodotti alimentari, proprio per l’abbondanza dell’offerta rispetto alla domanda, sono diminuiti in media di circa due terzi ri-spetto al prezzo del 1957) . A questo proposito, deve osservarsi che la rallentata crescita della produzione di cibo nella seconda metà degli anni Novanta non di-pende – come molti ritengono – dall’esaurirsi degli effetti della Rivoluzione Verde, ma da deliberate scelte di politica agricola dei paesi ricchi, che hanno così cercato di limitare il surplus .
Inoltre, proprio per effetto dell’aumento della quantità di cibo disponibile e della diminuzione dei prezzi si è ridotto, come abbiamo visto, il numero di persone cro-nicamente sottonutrite nel mondo: erano – secondo stime delle Nazioni Unite che però molti esperti hanno giudicato non attendibili – oltre 900 milioni all’inizio de-gli anni Settanta, sono nel 1997 circa 800 milioni di persone .
Naturalmente, la Rivoluzione verde non è stata priva di effetti di carattere am-bientale, economico e politico. Essendo determinata da tecnologie ad alto uso di energia e di know-how, ha rimpiazzato le tecniche agricole semplici e spesso a conduzione famigliare; favorendo monoculture intensive, ha ridotto l’autonomia agricola locale e regionale, creando nuove forme di dipendenza e immettendo gli agricoltori in un sistema di banche di sementi, fertilizzanti, macchine agricole, finanziamenti, organizzazioni politiche; ha creato vincitori e vinti su scala mondiale, privilegiando coloro che sono riusciti a tenere il passo con i paesi ricchi e danneggiando chi non ci è riuscito: nel 1950 l’agricoltura dei paesi ricchi era sette volte più efficiente di quella dei paesi poveri; nel 1985, trentasei volte .

6. La produzione di cibo: previsioni per il futuro.
Torniamo ora al tema centrale di questo articolo.
Le previsioni concernenti la quantità di cibo disponibile nel futuro sono di estre-ma importanza per valutare se i PAGM siano utili o indispensabili per affrontare il problema del nutrimento dell’accrescersi della popolazione mondiale o quantome-no per evitare un incremento delle persone sottonutrite e affamate nel mondo. E la necessità di capire se i PAGM siano necessari, o magari soltanto utili, dipende anche dal fatto che negli anni Novanta del secolo passato, salvo che in Africa, gli effetti delle tecnologie utiizzate per realizzare la Rivoluzione Verde sembrano es-sersi approssimati al limite fisiologico; anche in molti paesi asiatici la produzione, dopo essere incessantemente salita fino ai primi anni Novanta si è poi mantenuta stabile .
Naturalmente le previsioni in questo campo sono assai ardue, per la molteplicità di fattori da considerare (oltre a quello strettamente agroalimentare, si deve tener conto degli aspetti climatici, economici, politici e di relazioni internazionali), sia per i diversi e spesso non dichiarati interessi degli esperti e degli scienziati pro-prio con riferimento all’impiego di tecniche genetiche (in quanto i sostenitori di queste ultime tendono ad accentuare la probabilità di un futuro peggiore dell’attuale, mentre gli oppositori favoriscono ipotesi ottimistiche).
Così, è prima di tutto assai incerto uno dei dati di partenza di qualsiasi previsione e cioè la quantità delle persone sottonutrite nel futuro.
Secondo il rapporto della Royal Society (che è nettamente favorevole all’utilizzazione dei PAGM) l’attuale cifra di 800 milioni di persone sottonutrite è destinata a raddoppiarsi nel 2050, se non interverranno consistenti modificazioni sulle cause che generano il sottonutrimento .
Invece, secondo altre stime (per esempio, la stima della FAO del 1996) il numero complessivo delle persone sottonutrite dovrebbe continuare a calare, riducendosi nel 2050 sulla quantità di 600 milioni .
Pur essendo questa contrapposizione di tali dimensioni da rendere di per sé solo arduo qualsiasi esercizio previsionale, su un dato però vi è un sostanziale accordo tra tutti gli specialisti: futuri aumenti della produzione agricola dovranno basarsi su un aumento della produttività, e non su una estensione dei territori destinati all’agricoltura. Ciò per due ragioni. Prima di tutto, perché le aree disponibili e in concreto utilizzabili per l’agricoltura sono già scarse, e continuano a diminuire, sia per cause naturali (erosione, mancanza di acqua, desertificazione, ecc.) , sia per l’assoggettamento ad altre destinazioni; poi perché una estensione delle aree destinate all’agricoltura oltre i limiti attuali produrrebbe costi economici e orga-nizzativi difficilmente sopportabili per molti paesi e, inoltre, un aumento non so-stenibile dell’inquinamento ambientale (per effetto della distruzione delle foreste, dell’habitat naturale e della biodiversità).
La questione centrale è quindi se sia possibile un aumento della resa delle colti-vazioni adottando le stesse tecniche introdotte dalla Rivoluzione Verde (e quindi senza utilizzare le nuove tecnologie genetiche), senza provocare danni non soste-nibili all’ambiente, in modo da soddisfare il prevedibile aumento della domanda dovuto all’aumento della popolazione mondiale.
A questa domanda hanno cercato di dare risposta negli ultimi anni molti esperti di statistica, di economia agricola, e di politiche di intervento pubblico nell’economia..
Partiamo con dei dati.
La crescita della domanda di cibo, relativamente alle quattro specie esaminate, è stata stimata fino al 2020 in misura di 1,2% all’anno per cereali e riso, 1,5% per granturco .
Questo significa che sarà necessario un aumento di produzione del 44% per i ce-reali, del 43% per il riso e del 56% per il granturco, rispetto alle quantità attuali, da ottenersi senza un sostanziale aumento di terre coltivate.
Molti studi sono stati compiuti per verificare quale sia la produttività massima raggiungibile con le tecniche agricole attualmente utilizzate; tenendo conto della produttività massima raggiunta dalle varie specie nelle migliori condizioni am-bientali e tecnologiche possibili, la conclusione più diffusa è che non potranno essere superati di molto i livelli raggiunti attualmente dalle colture più produttive nei paesi più avanzati, se non introducendo nuove sofisticate tecnologie che per-mettano di intervenire sull’efficienza della fotosintesi e sul metabolismo delle piante .
Posto questo limite, le previsioni non sono per nulla pessimistiche.
Secondo la maggior parte degli esperti l’obiettivo di raggiungere una produzione di circa 3 miliardi di tonnellate di cereali per soddisfare la domanda mondiale di cir-ca 8 miliardi di persone nel 2025 può essere raggiunto senza aumentare il terreno coltivato e utilizzando le tecniche attualmente in uso, solo aumentando la produtti-vità dei paesi meno avanzati in modo da portare la produzione ai livelli già rag-giunti dai paesi ricchi, anche se saranno necessari imponenti processi di razionalizzazione nel raccolto, nella conservazione e nella distribuzione dei prodotti alimentari, eliminando gli sprechi che ora caratterizzano il sistema agroalimentare mondiale .
In definitiva la situazione mondiale per ciò che riguarda la produzione globale di cibo dovrebbe continuare nella tendenza al miglioramento .

7. Molto cibo, ma maldistribuito.
La quantità globale di cibo sarà quindi sufficiente, secondo la maggior parte delle previsioni, a far fronte alla domanda globale della popolazione nei prossimi tre\quattro decenni; ma questo dato non è di per sé sufficiente a concludere che sarà risolto il problema della fame nel mondo.
Infatti, la produzione di cibo non è distribuita uniformemente in rapporto alla po-polazione e alle previsioni di crescita. Anzi: si è visto che la produzione di cibo è già oggi sovrabbondante nei paesi ricchi, dove l’aumento della popolazione sarà esiguo, mentre è oggi deficitaria nei paesi poveri – soprattutto in Africa e in Asia – dove è previsto il più alto tasso di crescita della popolazione.
Per queste ultime aree, destinate a ricevere il maggior incremento di popolazione, non sarà prevedibilmente possibile ottenere un aumento della produzione di cibo che soddisfi le necessità della aumentata popolazione.
Pertanto per soddisfare la domanda di cibo sarà necessario – se non si ipotizzano altre soluzioni – realizzare efficienti processi di trasferimento di cibo dai paesi ric-chi (ove la produzione è in eccedenza) ai paesi in via di sviluppo.
“Non si getta via la minestra, perché la gente muore di fame”. Questo ammonimen-to impartito dai genitori ai figli della mia generazione (mi riferisco agli anni Cin-quanta del secolo scorso), dovrebbe quindi essere destinato a divenire di pressan-te attualità nel futuro.
Ma è difficile trasferire la minestra avanzata nelle case dei paesi ricchi verso le capanne dei paesi poveri. Pertanto è proprio sulla realizzabilità del trasferimento che si concentrano le maggiori preoccupazioni.
Non è infatti assolutamente chiaro come questo trasferimento potrà essere realiz-zato e garantito, sotto vari punti di vista: dal punto di vista commerciale e della global governance, posto che attualmente il commercio mondiale dei prodotti ali-mentari è stato solo sfiorato dal vento di libertà e di libera concorrenza portato dalla globalizzazione (non casualmente, potendo essere la libera concorrenza in questo settore devastante per le economie dei paesi ricchi); dal punto di vista or-ganizzativo-logistico; infine, dal punto di vista meramente economico, posto che certamente gli affamati dei paesi in via di sviluppo non sono in grado di acquista-re sul mercato mondiale le derrate alimentari prodotte nei paesi ricchi.
In definitiva, le previsioni, seppur rassicuranti e addirittura ottimistiche per ciò che riguarda la produzione di cibo, non risolvono il problema essenziale, e cioè quello di far incontrare l’abbondante offerta con l’abbondante domanda; ma nes-suno indica la strada per risolvere questo problema. Molti però ritengono che non sia questo il problema.

8. La fame dipende davvero dalla mancanza di cibo?
L’idea che i problemi alimentari futuri debbano o possano risolversi trasferendo cibo dai paesi ove è sovrabbondante ai paesi ove manca è ritenuta da molti irrea-lizzabile e errata.
Costoro osservano che la vera causa della fame non è la mancanza di cibo: è la di-seguaglianza.
È questo per esempio il pensiero di Amartya Sen secondo il quale non vi è colle-gamento tra mancanza di cibo e fame: la storia insegna che la gente muore di fa-me in presenza di sovrapproduzione di cibo al quale però non ha accesso per mancanza di mezzi . La causa della fame non è quindi la mancanza di cibo, è la povertà. Il problema non sta dalla parte dell’offerta, sta dalla parte della doman-da .
Aumentare la produzione di cibo con le stesse modalità con le quali viene prodot-to oggi sarà inutile in futuro, come è inutile oggi: il cibo non viene trasferito da chi lo ha a chi non lo ha, perché il trasferimento costa troppo e perché chi non produce cibo non ha neppure i mezzi per comprarlo sul mercato mondiale.
La fame è determinata quindi, come sostengono gli ambientalisti di oggi, a diffe-renza degli ambientalisti di alcuni decenni orsono, non da condizioni naturali e dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di mezzi per procurarsi il cibo . In questa prospettiva, ciò che risulta necessario per realizzare l’obiettivo di garantire cibo sufficiente per tutti è realizzare concretamente la possibilità di aumentare la produzione di cibo lì dove c’è il bisogno, senza ipotizzare inattuabili trasferimenti.
Questo significa che la fame nei paesi in via di sviluppo può e deve essere affron-tata nei prossimi decenni non solo aumentando la produzione agricola e non tan-to organizzando complessi meccanismi redistributivi, ma anche – e soprattutto – creando tutte le condizioni economiche, materiali, politiche, di educazione, di e-guaglianza e non discriminazione, di buon governo che permettono di incremen-tare il benessere della collettività e quindi di incrementare i mezzi economici ne-cessari per acquisire il cibo necessario sul mercato o per coltivarlo. La fame si combatte con la giustizia sociale.
In proposito, osserva Norman Borlaug, premio Nobel e uno dei padri della Rivolu-zione Verde, che i raccolti possono essere aumentati del 50% o addirittura del 100% in India, America latina e nelle aree della ex Unione Sovietica, e fino al 200% nell’Africa Subsahariana, a condizione che sia mantenuta la stabilità politi-ca e sia favorita l’iniziativa privata nel settore agricolo .

9. Politiche agricole per i paesi in via di sviluppo: l’utilità dei PAGM.
Eppure, anche questa conclusione non lascia soddisfatti.
L’aspetto che lascia perplessi è proprio quello sul quale, in definitiva, dovrebbe ruotare l’intero meccanismo cui è rimesso il nutrimento futuro della popolazione sottonutrita a livello mondiale.
Se le previsioni sull’aumento della produzione di cibo tramite aumento della pro-duttività utilizzando le tecnologie proprie della Rivoluzione verde non offrono una rassicurante soluzione al problema del necessario trasferimento di cibo dai paesi ricchi ai paesi poveri, la soluzione basata sull’aumento di giustizia sociale in que-sti ultimi nei prossimi tre\quattro decenni sembra altrettanto irrealizzabile, quan-tomeno per la maggior parte dei paesi interessati, tenuto conto della situazione attuale caratterizzata da pesanti disuguaglianze, guerre civili, corruzione, ineffi-cienza amministrativa e sprechi.
In proposito, è stato osservato che è certamente vero che centinaia di milioni di persone sono affamate non perché non ci sia il cibo, ma perché sono povere e non hanno i mezzi per acquistarlo o per coltivarlo; ma il problema per la grande mas-sa degli affamati non è ottenere mezzi economici per l’acquisto di cibo, ma avere la possibilità di coltivare i prodotti agricoli necessari per la loro sussistenza .
Pertanto, se è vero che chi ha fame non ha cibo perché è povero, è altrettanto vero che è povero perché non ha cibo, perché i raccolti sono insufficienti, la resa delle varie specie agricole disponibili è assai bassa, il terreno è arido, l’acqua per irriga-re manca, e così via. È questo lo scenario che caratterizza una grande numero di paesi in via di sviluppo, dall’Africa all’Asia, ove oggi quasi un miliardo di persone muore di fame perché vive al di fuori del mercato: non solo del mercato globale, ma anche dei mercati locali. E non è assolutamente credibile ipotizzare una radi-cale trasformazione di questo scenario con l’improbabile rapida adozione di politi-che di giustizia sociale.
Ecco che allora si profila l’utilità dei PAGM per uno specifico settore di mercato, quello dell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo.
Non come alternativa all’incremento di produttività da realizzarsi con le tecnologie offerte dalla Rivoluzione verde, né come alternativa all’adozione nei paesi in via di sviuppo di politiche sociali e agricole che a loro volta incrementino le possibilità di accesso al cibo per coloro che oggi sono esclusi, ma come strumento specifico di intervento finalizzato a soddisfare la domanda di sopravvivenza – che vuol dire essenzialmente domanda di modeste quantità di cibo e di basilare assistenza sa-nitaria – di chi sta nei paesi in via di sviluppo, e non ha accesso né al mercato, né alla giustizia sociale; il che significa alcune centinaia di milioni di persone per le quali la sopravvivenza è legata soltanto alla possibilità di coltivare i prodotti di cui hanno bisogno.
In queste economie quindi la tecnologia genetica può esplicare tutte le sue poten-zialità, creando PAGM resistenti ai parassiti, alla mancanza di acqua, e in genera-le alle difficili condizioni ambientali.
Per esempio, tutti i prodotti agricoli nei quail si è riuscito ad inserire il Bacillus Thuringiensis, che produce una tossina fortemente insetticida hanno rivelato, proprio per questa accentuata resistenza ai parassiti, un consistente aumento della produttività .
Inoltre, sono state realizzate specie di riso e di granturco transgenico che sono in grado di tollerare suoli con alta concentrazione di alluminio, un problema comu-ne dei suoi con elevato tasso di acidità, assai diffusi nei paesi tropicali, e sinora poco produttivi (ma anloghi prodotti sono in corso di elaborazione per ridurre, mediante la coltivazione, la concentrazione di mercurio nel terreno. Altri scienziati all’università di Delhi hanno allo studio un riso che, a seguito dell’aggiunta di due geni, è in grado di sopravvivere in situazioni – frequenti in molti paesi asiatici – di prolungata immersione nell’acqua. Un altro gruppo di ricercatori ha ottenuto un riso transgenico in grado di produrre betacarotene, che nel processo digestivo può essere convertito in Vitamina A (di cui sono carenti in Asia 180 milioni di bambi-ni, con due milioni di morti per cause connesse alla deficienza di questa vitami-na). È anche in corso di progettazione un riso con un contenuto di ferro triplo ri-spetto a quello naturale, utile per evitare anemie che dipendono dall’assenza di questo minerale. In Kenya è stata realizzata una patata dolce transgenica che è resistente ad un distruttivo virus . Si sta rivelando di enorme importanza inoltre la possibilità di utilizzare i PAGM a fini di assistenza sanitara: sono assai avanzati gli studi per l’inserimento di vaccini all’interno di prodotti commestibili, come le banana, ottenendo con ciò il risultato di immunizzare con il cibo i bambini dei paesi in via di sviluppo ai quali la somministrazione di vaccini è preclusa da diffi-coltà organizzative, logistiche o finanziarie .
L’elenco potrebbe continuare.
Ma già questi esempi impongono di rifletter sul fatto che, se il reale problema è quello di creare fonti di nutrimento lì dove ci sono le persone che ne hanno biso-gno, l’uso dei PAGM può costituire la soluzione più ragionevolmente realizzabile nel periodo di tre\quattro decenni in considerazione, senza affidarsi a irrealizzabi-li trasferimenti di cibo su scala globale, e neppure all’adozione di improbabili ri-forme istituzionali nei paesi in via di sviluppo, ma soltanto nella disponibilità del-le sementi necessarie: cioè di beni il cui costo è irrisorio ed alla portata di tutti.

10. Lo scontro sui PAGM: gli attori.
Se si tiene conto di questi dati, la moltitudine di attori che popola il confuso sce-nario dello scontro sui prodotti geneticamente ricombinati comincia a sgranarsi nelle sue componenti, e le singole posizioni cominciano ad assumere una forma e un significato.
Partiamo dagli oppositori dei PAGM.
Ci sono prima di tutto i gruppi ambientalisti e l’opinione pubblica che a loro fa ri-ferimento.
I gruppi ambientalisti tengono essenzialmente conto della situazione di benessere economico e ambientale dei paesi ricchi, cioè dei paesi in cui si trovano i loro ade-renti, i loro finanziatori, e l’opinione pubblica che li sostiene, dove si trovano i consumatori e le loro associazioni.
Per tutti costoro, il rifiuto dei PAGM non comporta alcuna conseguenza negativa sul tenore di vita e sul benessere alimentare: essi offrono infatti la possibilità di una superflua aggiunta di cibo in una situazione in cui i problemi sono l’obesità e l’eccesso di cibo e non la fame . L’introduzione dell’uso dei PAGM, per converso, non porta alcun beneficio: non aggiunge nulla a ciò che già c’è, sicché ogni rischio per quanto minimo e trascurabile, risulta ingiustificato.
Come ha detto Jacques Diouf, Direttore generale della FAO nel suo discorso i-naugurale dell’Assemblea generale svoltosi a Roma nel giugno del 2002, “Non è un loro problema”.
I gruppi ambientalisti soprattutto in Europa sono tutt’altro che soli.
Hanno il sostegno – assai importante da un punto di vista ideologico-culturale – di movimenti fondamentalisti (di derivazione religiosa o puramente conservazioni-sta), per i quali la lotta ai PAGM costituisce un ottimo strumento per impostare battaglie a difesa della vita, della creazione o della natura (con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo indicato nei precedenti capitoli); hanno inoltre il so-stegno del frastagliato movimento antiglobalizzazione, per il quali la lotta ai PAGM assume il significato di lotta contro l’estendersi a livello mondiale del potere eco-nomico e tecnologico delle multinazionali americane.
Ma soprattutto c’è, come potente alleato nell’arena dei rapporti di forza economi-co-politici dei paesi ricchi europei, la filiera agroalimentare tradizionale: i conta-dini, gli agricoltori, gli allevatori e le organizzazioni politico-sindacali che li rap-presentano, i vari settori produttivi della coltivazione dei prodotti agricoli (e quindi i produttori di erbicidi, pesticidi e sostanze chimiche necessarie per l’attuale mo-do di produzione) e delle trasformazione dei prodotti agricoli in prodotti di merca-to, e poi, via via, i settori dell’Amministrazione pubblica e del potere legislativo che rappresenta i diversificati, consistenti interessi che su tale filiera convergono.
Per tutti costoro, l’utilizzazione e la diffusione dei PAGM presentano il rischio di seri danni: rischiano infatti di compromettere il virtuosistico gioco di prestigio i-stituzionale-giuridico-economico su cui si regge il sistema agroalimentare dei pa-esi ricchi, rivolto a mantenere, nell’ampia marea della globalizzazione, un precario equilibrio protezionistico tra eccesso di produzione e garanzia di profitti.
Se passiamo dall’altra parte dello schieramento, tra i sostenitori dei PAGM e tra coloro possono trarre benefici, emergono dalla indistinta moltitudine attori che ri-vestono questo ruolo solo da poco tempo e cioè da quando il dibattito si è focaliz-zato sul tema agricolo e alimentare, e che paiono essere i veri destinatari dei PAGM: tutte le diecine e diecine di milioni di persone che popolano i paesi in via di sviluppo, che non hanno mezzi per accedere al mercato dei prodotti alimentari finiti, che non partecipano a formare la pubblica opinione e non partecipano quindi al dibattito mondiale, che devono fare i conti non solo con un ambiente o un terreno ostili per trarre l’essenziale per la sussistenza, ma, assai spesso, an-che con l’indifferenza dei governi dei loro paesi.
Per costoro, l’utilizzabilità di PAGM adatti alle loro necessità e ai loro bisogni si-gnifica la chance di oltrepassare la linea rossa della sottonutrizione: significa un aumento di possibilità di sopravvivenza, a partire dalla disponibilità di poche se-menti .
Ci sono poi le potenti – e famigerate – multinazionali dell’agroalimentare, cioè le organizzazioni che sui PAGM hanno investito ingentissime risorse e hanno pro-gettato enormi profitti.
Ma proprio queste – accusate di voler sottoporre al proprio controllo e alle proprie finalità commerciali la futura produzione agricola mondiale – si trovano ora di fronte a una inaspettata e paradossale situazione.
Ed infatti i PAGM, prodotto di anni di ricerca scientifica e di sofisticata tecnologia dei paesi ricchi, oggetto di enormi investimenti finanziari e di altrettanto enormi aspirazioni di guadagni, rischiano di rivelarsi, salvo che per alcune produzioni di nicchia, dei beni inutili e forse anche dannosi proprio per i paesi ricchi ove pos-sono soltanto aggravare il problema della sovrapproduzione agricola e quindi al-terare il precario equilibrio di sovvenzioni, protezionismo e contenimento della produzione che lì tutela gli agricoltori e, indirettamente, l’intero mercato agroali-mentare. Nello stesso tempo, i PAGM si profilano dei beni preziosi e indispensabili per i paesi in via di sviluppo, e per i più poveri tra questi: quindi per un mercato che certamente non è in grado di soddisfare con i propri mezzi le aspirazioni di profitto e di ripagare gli investimenti dei produttori dei PAGM.
Così, i principali sostenitori dell’uso dei PAGM, le multinazionali della biotecnolo-gia, vedono profilarsi defatiganti e costose opposizioni da parte dei consumatori ai quali i loro prodotti sono diretti, perché possono pagarli, e nel contempo la do-manda e il bisogno di quegli stessi prodotti da parte di una massa di possibili consumatori non in grado di far fronte ai costi.
Gli attori però non finiscono qui.
Tra gli schieramenti si collocano, esitanti, i governi dei paesi ricchi – soprattutto in Europa -, stretti da un lato dalla pressione della domanda dell’opinione pub-blica e dalla struttura agroalimentare tradizionale, contraria all’uso dei PAGM, d’altro lato da necessità – non tanto e non solo do carattere altruistico, ma di ga-rantire margini di complessiva stabilità economica e politica nei prossimi decenni in un mondo la cui popolazione sarà sempre più squilibrata – di soddisfare le ne-cessità alimentari del prossimo futuro dei paesi in via di sviluppo. Tutti questi go-verni si trovano nella peggiore delle posizioni, si trovano cioè di fronte alla scelta tra assumere decisioni gradite alla generazione presente, da cui dipende la loro elezione e il loro sostegno, ma tali da compromettere l’equilibrio alimentare e quindi politico fra pochi decenni, oppure decisioni sgradite agli elettori presenti ma necessarie per le generazioni future non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche dei paesi ricchi.
Ci sono anche i governi dei paesi in via di sviluppo, che si trovano assai spesso in una situazione non migliore: dovrebbero decisamente optare per l’adozione di nuove tecnologie agricole, ma questo significherebbe indirizzare investimenti per avviare la costruzione di situazioni di maggior benessere per gli strati più poveri della popolazione e così alterare alle radici la struttura sociale, il tessuto di tradi-zioni e di consuetudini dei paesi che governano, i meccanismi internazionali di aiuti e sovvenzioni, e in generale minare alle basi i presupposti sui quali si basa il loro potere.

11. Conclusioni.
Così la realtà dell’economia agricola mondiale e l’analisi dei bisogni e dell’offerta nel futuro focalizzano in posizioni più precise la moltitudine degli attori sulla sce-na dello scontro sui PAGM e delineano uno scenario per molti versi inaspettato; si scompaginano così certezze acquisite e vengono allo scoperto pregiudizi e ideolo-gie sulla base delle quali esse sono state costruite.
Molti sostenitori dei PAGM, bollati come ingenui amanti del progresso, oggettiva-mente (se non volontariamente) al servizio degli interessi economici e dell’ansia di profitto delle multinazionali della genetica, risultano schierati a difesa della ne-cessità di garantire la sopravvivenza alimentare nei paesi in via di sviluppo.
Viceversa, ambientalisti e altri oppositori dei PAGM, sostenuti dai movimenti di sinistra e genericamente antiglobalizzazione, si trovano ad essere schierati con i settori più conservatori delle società ricche, difensori degli interessi della filiera agro-chimica-alimentare tradizionale, egoisti difensori del benessere acquisito e indifferenti alle esigenze di chi, nei paesi in via di sviluppo, muore di fame.
Restano, ancora, difficili problemi da risolvere: non quelli della produzione di ci-bo, né quelli del suo trasferimento, né quelli di una trasformazione in senso de-mocratico dei paesi in via di sviluppo, ma quelli connessi con la soluzione di un problema che sempre più si porrà sul tappeto delle relazioni internazionali, e cioè come sarà possibile l’incontro dell’offerta di PAGM da parte delle multinazionali che sui PAGM detengono la proprietà intellettuale, alla ovvia ricerca di profitti e di compensi per gli investimenti realizzati, con la domanda dei paesi in via di svi-luppo che, come si è detto, sicuramente non saranno in grado di soddisfarne le richieste economiche.
Ed ecco così che, alla fine di questo scritto, scopriamo che il problema davvero centrale dell’utilizzazione dei PAGM diventa non quello etico dal quale lo scontro sui PAGM ha preso le mosse, né quello di economia distributiva, né quello della politica agricola, e neppure quello di politica internazionale, ma la questione della global governance e degli equilibri di diritti e di accesso alle risorse nel mondo globalizzato.

[1] United States Department of Agriculture Economic Research Service (ERS), Biotech corn and soybeans: Changing markets and the government’s role, 2000, Washington, DC. [torna su]

[2] Richard Lewontin, Genes in the Food!, in NYRB June 21, 2001 [torna su]

[3] Nel dicembre del 1996 la Commissione dell’UE, dopo aver ottenuto il parere favorevole di tre or-ganismi consultivi, ha autorizzato la commercializzazione del granturco geneticamente modificato (con un brevetto Novartis) con un gene che rendeva il prodotto resistente non solo contro un erbi-cida e un parassita, ma anche contro un antibiotico (l’ampicillina). Da allora, il granturno modifi-cato è coltivato in Spagna, in Francia e in Portogallo. Subito dopo, Austria e Lussemburgo hanno vietato l’uso del granturco modificato sul loro territorio. La Commissione ha ritenuto illegittima la decisione dei due paesi membri, ma nessuna iniziativa è stata adottata da parte dell’UE per otte-nere l’eliminazione dei divieti, che sono quindi tuttora in vigore. Nel frattempo, a seguito di un giudizio promosso in Francia da Greenpeace e da Friends of the Earth, il Conseil d’Etat nel settem-bre del 1998 ha sospeso la commercializzazione del granturco modificato, rimettendo la questione della corretta applicazione dell’art.16 della Direttiva 90\220\EC sui prodotti geneticamente modi-ficati alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel febbraio 2000 anche la Germania ha sospeso la commercializzazione del granturco modificato, a seguito della diffusione di dati – duramente contestati nella comunità scientifica – che indicavano che il granturco modificato da Novartis ri-sultava tossico anche per una farfalla (Monarca) ed inoltre che le componenti tossiche del gran-turco permanevano per varie settimane nel suolo, danneggiando la riproduzione di vari tipi di in-setti (sul punto, si veda MELDOLESI, …). Nel febbraio 2001 l’UE ha adottato una nuova direttiva (sostitutiva della direttiva 90\220\EC) qualificata come la normative più restrittiva del mondo in materia di GMO. L’annunciata intenzione della Commissione di revocare la moratoria è duramen-te contestata da vari Stati membri, tra cui l’Italia e la Francia. Sull’atteggiamento europeo si veda G. Gaskell, Agricultural biotechnology and public attitudes in the European Union in AgBioForum, 2000 3(2&3), 87-96, consultabile in www.agbioforum.org/vol3no23/ vol3no23ar4gaskell.htm [torna su]

[4] Il Saggio sulla popolazione di Thomas Malthus, la cui prima edizione è del 1798, divenuta imme-diatamente un best-seller, è centrato, come è noto, sull’idea della limitatezza delle risorse naturali e del necessario sopravanzare della popolazione sulla disponibilità di mezzi di sussistenza, con ca-tastrofiche conseguenze (morti, carestie, guerre). Queste previsioni sono state poi attenuate nella seconda edizione del 1803 (e ridotte a vincoli legali e istituzionali). A questa prima fase segue per Malthus un periodo più ottimista, rappresentato dai “Principles of Political Economy” del 1820 (qualificato assai sbrigativamente da Marx nella Storia delle teoria economiche “un vero modello di imbecillità mentale”). Su Malthus è illuminante il saggio di Piero Barucci che funge da introduzio-ne ai Principi, pubblicati in edizione italiana da ISEDI nel 1972. [torna su]

[5] Ballantine Book, 1968. [torna su]

[6] E’ sufficiente ricordare l’opera forse più celebre dopo quella di Malthus, e più nota di quella di Ehrlich, su questo tema: Donella H. Meadows e altri, The Limits to Growth: A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, 1972. [torna su]

[7] Si veda per esempio l’articolo di Gregory Conko – Fred Smith, Jr., Biotechnology and the Value of Ideas in Escaping the Malthusian Trap, in 2 AgBioForum n.2, 1999, pag.150,consultabile al sito www.agbioforum.org/ vol2no34/conko.pdf. [torna su]

UN DIBATTITO SUI PAGM

L’articolo originale “A chi servono i prodotti agricoli geneticamente modificati?” è consultabile nella sezione Diritto dell’Ambiente.

***

Stefano Nespor nel suo articolo sostiene una tesi non nuova: che i “prodotti agricoli geneticamente modificati” (Pagm) sarebbero utili non tanto per i Paesi ricchi, quanto per i Paesi e per le popolazioni più povere, e che dunque i loro oppositori, in primis gli ambientalisti, sarebbero su questa materia schierati con gli interessi più forti e garantiti (quelli dei consumatori e degli agricoltori del Nord) e contro gli interessi di chi soffre la fame. Tesi, ripeto, tutt’altro che nuova, visto che da sempre i sostenitori dei Pagm vanno ripetendo che essi contribuirebbero a vincere la fame e la malnutrizione.
Le argomentazioni di Nespor, però, non mi convincono, perché danno per scontata una verità tutta da dimostrare, quella appunto sull’utilità dei Pgam. Pure mettendo da parte una questione niente affatto secondaria – se la fame si combatta aumentando la produttività delle sementi o invece migliorando le condizioni economico-sociali dei consumatori e degli agricoltori “poveri” -, resta una domanda ineludibile: cos’hanno portato finora i Pagm?
Il 90 per cento di tutti i Pagm attualmente impiegati in agricoltura è fatto di piante modificate per due soli caratteri: soia round-up ready, più resistente ai diserbanti (72 per cento), e mais Bt, più resistente agli insetti (28 per cento). Dunque, la gran parte dei Pagm ha come effetto di consentire un maggiore impiego di erbicidi, non a caso prodotti in larghissima misura da quelle stesse multinazionali che commerciano soia mais geneticamente modificati. Come dire: la coltivazione di Pagm non fa diminuire automaticamente l’utilizzo di pesticidi.
Un’altra “verità” ben lontana dall’essere provata è che l’utilizzo di Pagm faccia crescere la produttività; su questo aspetto, i dati disponibili che mettono a confronto costi e produttività di sementi modificate e tradizionali presentano una realtà contraddittoria: per la soia resistente agli erbicidi il costo dei semi è più alto di oltre il 10 per cento, il costo dei trattamenti è più basso del 30 per cento, la produttività va da -12 per cento a +4 per cento; per il mais resistente agli insetti il costo dei semi va da +3 per cento a + 35 per cento, il costo dei trattamenti è più alto del 6 per cento, la produttività oscilla tra +3 e +6 per cento. Quanto poi a prodotti più recenti come il “gloden rice” con vitamina A, è bene sottolineare che secondo molti autorevoli medici e nutrizionisti, perché l’organismo umano assimili la vitamina A “siontetica” ha bisogno di vitamina A naturale. Il che significa, brutalmente, che il “gloden rice” fa bene ai bambini che già hanno vitamina A, cioè ai bambini già ben nutriti.
Allora: dove sta questa indiscutibile utilità dei Pagm per gli agricoltori e per i consumatori dei paesi poveri?
Un altro punto importante, che Nespor sembra non vedere, riguarda la differenza tra le ibridazioni tradizionali e i Pagm. E’ verissimo che da secoli, non solo dal Novecento, quasi tutti i prodotti agricoli sono il risultato di ibridazioni, però con una diversità piuttosto cruciale rispetto ai Pagm: in laboratorio si ottengono varietà a cui con nessuna ibridazione naturale si potrebbe mai giungere, nel senso che si possono “incrociare” tra loro specie non interfeconde (caso limite: la fragola modificata con un gene di un pesce artico). Questa non piccola differenza rende necessario applicare con grande rigore ai Pagm il “principio di precauzione”, affidando la ricerca su eventuali danni sanitari o ambientali non prevalentemente alle aziende del biotech ma a istituzioni pubbliche o comunque indipendenti.
C’è poi un argomento che Nespor trascura, e che invece ha un’importanza centrale discutendo di Pagm: l’attuale legislazione brevettuale fa sì che le poche grandi aziende che controllano il mercato del biotech dispongano, verso gli agricoltori che fanno uso di Pagm, di un potere enorme. L’agricoltura biotech limita di moltissimo l’autonomia degli agricoltori, quasi li trasforma in “dipendenti” delle varie Monsanto, senza contare che è in aperto contrasto con molti trattati internazionali – a cominciare dalla Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità – che sanciscono il diritto di ogni paese alla proprietà dei rispettivi giacimenti di biodiversità.
Infine. Non capisco da dove deduca Nespor la convinzione che i popoli poveri vogliono i Pagm, e che vi sia un sostanziale conflitto d’interessi tra i consumatori e gli agricoltori delle due sponde socio-economiche del mondo. L’agricoltura biotech, almeno per come è oggi, favorisce le colture intensive e penalizza la diversità agroalimentare. E proprio la diversità è uno straordinario fattore competitivo tanto per le economie agricole dei Paesi poveri quanto per quelle, per esempio europeo.
Il mondo agricolo europeo non è un monolite, comprende interessi non sempre omologhi: fino ad ora, le politiche agricole del vecchio continente hanno scoraggiato, è vero, l’uso di Pagm, ma hanno assecondato un sistema di sovvenzioni e protezioni commerciali che alimenta pratiche sistematiche di dumping; grazie alle sovvenzioni, che assorbono circa il 90 per cento del bilancio agricolo dell’Unione europea, molti prodotti vengono esportati nel Sud del mondo a prezzi addirittura inferiori ai costi di produzione, danneggiando tanto i paesi poveri che quel segmento crescente di agricoltura europea che punta sulla qualità. Forse, caro Nespor, Vandana Shiva esprime talvolta posizioni estreme, ma la sua idea che l’agricoltura dei paesi poveri possa svilupparsi solo valorizzando le proprie differenze non è così peregrina.
Queste brevi considerazioni convergono in un ragionamento più generale: io come molti ambientalisti crediamo che la ricerca transgenica debba andare avanti, che da essa possano venire in futuro applicazione davvero utili per la collettività. Ma pensiamo anche che ad oggi i Pagm servano solo agli interessi di chi li formula e commercializza. Bisogna cambiare le regole, bisogna rendere effettivo il diritto di ogni consumatore a riconoscere i Pagm dai prodotti tradizionali e di ogni agricoltore a non vedere i propri campi contaminati dalle colture transgeniche. E questo è un obiettivo assolutamente trasversale al Nord e al Sud del mondo.
26 giugno 2003
Roberto Della Seta
Coordinatore Segreteria Nazionale Legambiente
[apparso su Scienza – Esperienza]

***

Le affermazioni contenute nella risposta di Della Seta al mio scritto non trovano – per quanto io abbia coscienziosamente indagato prima per scrivere l’articolo ed ora per rispondere – riscontro nella letteratura scientifica ed economica esistente in materia di PAGM.
Vediamole separatamente.

1. DS: “il 90 per cento di tutti i Pagm attualmente impiegati in agricoltura è fatto di piante modificate per due soli caratteri: soia round-up ready e mais BT”.
Non è chiaro se il dato riguardi l’estensione di aree utilizzata, o la quantità di prodotto. II dato è comunque di per sé poco significativo. Per esempio, l’area destinata alla coltivazione del riso negli Stati Uniti è assai ridotta rispetto a quella destinata a soia e mais, ma nello spazio di poco più di tre anni – tra il 1997 e il 2001 – ben il 77% di essa era stata convertita alla coltivazione di riso geneticamente modificato (si veda Mamane Annou, Michael Thomsen, Eric Wailes, Impacts Of Herbicide Resistant Rice Technology On Rice-Soybeans Rotation, in Agbioforum 4,2,2001).
In ogni caso, negli Stati Uniti nel 1998 – anno di maggiore estensione combinata delle coltivazione di soia RR e mais BT – le due colture indicate da DS arrivavano al 82% dei complessivi PAGM in uso (C.James, Global status of transgenic crops in 1998, ISAAA Briefs No. 8 Ithaca, NY). Oggi il dato è sensibilmente diverso perché l’impatto di PAGM nelle diverse colture sta rapidamente modificandosi, man mano che nuovi PAGM ottengono l’autorizzazione alla commercializzazione e all’immissione nell’ambiente.
In particolare, due colture di PAGM stanno espandendosi con grande rapidità: il riso e il cotone.
Per ciò che riguarda il riso, negli stati meridionali degli Stati Uniti (ove questa coltura è tradizionalmente praticata), sono stati piantati nel solo anno 2000 2,5 milioni di acri (circa 1.3 milioni di ettari) e sono stati prodotti 148 milioni di tonnellate di riso geneticamente modificato: già si è detto che si tratta del 77% dell’intera produzione di riso degli Stati Uniti (si veda lo scritto citato).
Il cotone geneticamente modificato (cotone RR) è passato in pochi anni a coprire dal 4% al 70% delle aree destinate a questa coltivazione (si vedano dati e statistiche comparative in Michele C. Marra, Philip G. Pardey, and Julian M. Alston, The Payoffs to Transgenic Field Crops: An Assessment of the Evidence, consultabile in www.agbioforum.org/v5n2/v5n2a02-marra.htm). Questa scelta è stata provocata dalla constatazione dei vantaggi competitivi offerti dal cotone RR rispetto non al cotone naturale – che non esiste più da centinaia di anni – ma alle varietà di cotone tradizionalmente utilizzate (si veda lo studio condotto nello stato della California di Marianne McGarry Wolf, John Gelke, Michelle Lindo, Philip Doub, and Brian Lohse, Production and Marketing Characteristics of Adopters and Nonadopters of Transgenic Cotton Varieties in California entrambi in Agbioforum 5,2,2002). Analogo successo ha ottenuto il cotone Bt in pochissimi anni in Sudafrica (si veda l’articolo di Yousouf Ismael – Richard Bennett – Stephen Morse, Benefits from Bt Cotton Use by Smallholder Farmers in South Africa, in Agbioforum 5,1,2002) e in Cina (si veda in proposito l’eccellente studio di C.E.Pray – J.Huang – F.Qiao, Impact of Bt cotton in China, in World Development, 2000, 29(5), 1-34). Ulteriori dati e statistiche sul cotone geneticamente modificato, sul suo uso a livello globale sono periodicamente pubblicati dall’associazione nazionale americana dei produttori di cotone, il National Cotton Council di Memphis (Tennessee).

2. DS: ”Dunque, la gran parte dei Pagm ha come effetto di consentire un maggiore impiego di erbicidi, non a caso prodotti in larghissima misura da quelle stesse multinazionali che commerciano soia mais geneticamente modificati. Come dire: la coltivazione di Pagm non fa diminuire automaticamente l’utilizzo di pesticidi”.
A sostegno della tesi che i PAGM hanno determinato un maggior impiego di pesticidi ho rinvenuto nella letteratura specializzata successiva al 1998 solo un articolo, che per di più adotta una formulazione dubitativa (si tratta di M.A.Altieri – P.Rosset, Ten Reasons Why Biotechnology Will Not Ensure Food Security, Protect The Environment, And Reduce Poverty In The Developing World in AGbioforum 2, 3\4,1999. I due autori affermano “ The integration of the seed and chemical industries appears destined <sottolineatura mia> to accelerate increases in per acre expenditures for seeds plus chemicals, delivering significantly lower returns to growers”; gli autori citano a sostegno di questa conclusione solo l’autore di un articolo non pubblicato, che non ho quindi potuto verificare).
Al contrario, tutte le ricerche sul campo compiute negli ultimi anni, e tutti i dati raccolti, offrono dati univoci e concordanti in senso opposto, e cioè che quasi tutti i PAGM permettono una consistente riduzione nell’uso di pesticidi.
Rinvio ancora al documentatissimo scritto di Marra e a tutti i dati e la letteratura ivi citata, gran parte della quale può essere consultata su Internet.
Assai documentato risulta anche uno studio – condotto con riferimento a soia RR e cotone Bt riportando dati separati per gli Stati Uniti e per il resto del mondo (J.Falck-Zepeda, – G.Traxler – R. Nelson, Surplus distribution from the introduction of a biotechnology innovation in American Journal of Agricultural Economics,n. 82, 2000, pagg., 360-369); esso evidenzia i consistenti benefici ottenuti dagli agricoltori americani nel 1996 e nel 1997 rispetto ai loro concorrenti nel resto del mondo proprio per effetto della riduzione dell’uso di pesticidi, e quindi della riduzione dei costi per l’acquisto degli stessi.
Altrettanto importante è uno studio del 1999, che partendo dai dati relativi alla diminuzione dell’impiego di pesticidi indotta dall’uso della soya RR, costruisce un modello agroeconomico mondiale per individuare gli effetti sulle varie economie e sulle varie agricolture di questo trend, con conclusioni non propriamente tranquillizzanti (G.Moschini – H.Lapan – A.Sobolevsky, Trading technology as well as final products: Roundup Ready soybeans and welfare effects in the soybean complex, in The Shape of the Coming Agricultural Biotechnology Transformation: Strategic Investment and Policy Approaches from an Economic Perspective. Proceedings of the Third Conference of the International Consortium on Agricultural Biotechnology Research, Rome, Italy, 1999).

3. DS: “Un’altra “verità” ben lontana dall’essere provata è che l’utilizzo di Pagm faccia crescere la produttività; su questo aspetto, i dati disponibili che mettono a confronto costi e produttività di sementi modificate e tradizionali presentano una realtà contraddittoria”.
Anche questa affermazione, forse giustificata fino al 1997 e quindi nei primi anni di introduzione a regime dei PAGM, per la insufficienza dei dati a disposizione e per l’incompleta elaborazione di modelli di riferimento e di analisi (che tengano conto, per esempio degli effetti meteorologici, delle ondate imprevedibili di parassiti, e così via), è ora priva di qualsiasi fondamento.
La ricerca più imponente e significativa al riguardo – condotta su 10 diversi PAGM – è stata curata dal National Center for Food and Agricultural Policy americano, ed è stata oggetto di un Rapporto pubblicato nel giugno 2002 (Leonard P. Gianessi – Cressida S. Silvers – Sujatha Sankula – Janet E. Carpenter, Plant Biotechnology: Current and Potential Impact For Improving Pest Management In U.S. Agriculture: An Analysis of 40 Case Studies. Tutto lo studio, e il sommario – denominato executive summary sono consultabili in www.ncfap.org/40CaseStudies/NCFAB%20Exec%20Sum.pdf).
Le conclusioni del Rapporto non lasciano dubbi: l’adozione dei PAGM negli Stati Uniti ha portato aumento di produttività, maggiori profitti per gli agricoltori, oltre che, come detto, una consistente riduzione dell’uso di pesticidi.
In particolare, nel 2001 le coltivazioni di otto PAGM (mais, cotone, canola, grano, soyabean, riso papaia e squash) hanno determinato una maggior produzione di 4 miliardi di pounds (mantengo questa unità di misura non mi è chiaro a quale tipo di pound lo scritto si riferisca), ridotto i costi di produzione di 1,2 miliardi di dollari e ridotto l’uso di pesticidi per un valore di 46 miliardi di pounds.
Il maggior guadagno in termini di produttività si è ottenuto proprio con il mais geneticamente ricombinato: ben 3,5 miliardi di pounds, seguito dal cotone Bt (185 milioni di pounds).
Il maggior risparmio in termini monetari è stato realizzato proprio con la soya RR (circa 1 miliardo di dollari); seguono il cotone (133 milioni di dollari) e il mais (58 milioni di dollari)
Sempre l’uso della soia modificata ha permesso la più consistente riduzione nell’uso di pesticidi: 6,2 milioni di pounds (per ulteriori dati concernenti la soia si veda in particolare lo scritto di L.Gianessi – J.Carpenter, Agricultural biotechnology: Benefits of transgenic soybeans, Washington, DC: National Center for Food and Agricultural Policy, 2000 consultabile in www.ncfap.org.
In conclusione, le affermazioni di DS sono infondate e senza riscontro. Ma soprattutto sono tesi che vanno contro il senso comune.
Infatti, perchè mai si sarebbero verificate crescite così imponenti e impetuose nell’uso dei PAGM se l’effetto è quello di spendere di più, inquinare di più e guadagnare di meno? Perché mai gli agricoltori americani e quelli degli altri paesi del mondo sono così irrestibilmente trascinati all’uso di PAGM? È credibile che siano tutti “dipendenti delle varie Monsanto” e marionette nelle loro mani?

4. “Un altro punto importante, che Nespor sembra non vedere, riguarda la differenza tra le ibridazioni tradizionali e i Pagm. E’ verissimo che da secoli, non solo dal Novecento, quasi tutti i prodotti agricoli sono il risultato di ibridazioni, però con una diversità piuttosto cruciale rispetto ai Pagm: in laboratorio si ottengono varietà a cui con nessuna ibridazione naturale si potrebbe mai giungere, nel senso che si possono “incrociare” tra loro specie non interfeconde”.
Su questo punto mi limito, per brevità, a riportare quello che ho scritto: “Vi è però una differenza tra varietà vegetali ottenute con incroci tradizionali e PAGM. Le pratiche tradizionali sono vincolate al rispetto dei limiti naturali sulla compatibilità delle specie…. Al contrario, le tecnologie che utilizzano il DNA ricombinante possono essere utilizzate per ottenere modificazioni genetiche che non sarebbe possibile ottenere avvalendosi di pratiche tradizionali, inserendo in specie o varietà vegetali geni estratti da batteri o altri organismi animali, e realizzare così organismi transgenici”.
Proprio per questo, la normativa internazionale, europea e statale prevede severi controlli e rigorosi test prima di permettere l’immissione dell’ambiente dei PAGM.
*
Passiamo ora dalle questioni di fatto alle critiche sul contenuto valutativo del mio articolo. DS dichiara di non capire da dove io deduca “la convinzione che i popoli poveri vogliono i Pagm”.
Ma io non ho parlato delle convinzioni dei popoli poveri.
Ho semplicemente detto che l’attuale situazione di disequilibrio alimentare tra paesi ricchi – dove il problema è la sovrapproduzione di cibo e l’obesità – e paesi poveri – dove milioni di persone vivono in condizione di sottonutrizione – è destinata ad aggravarsi nei prossimi decenni con enormi e imprevedibili ripercussioni sull’assetto politico e socioeconomico mondiale e sull’ambiente globale.
Questo disequilibrio alimentare è difficilmente eliminabile spostando il cibo da dove c’è a dove non c’è, sia perché i costi sono enormi, sia perché, quando ciò si fa, la maggior parte del cibo inviato non arriva a chi ne ha bisogno, ma ai vari livelli di accaparratori internazionali e locali.
Sarebbe eliminabile creando le premesse per lo sviluppo di quei paesi, e cioè avviandoli verso la democrazia, la pace, sistemi di governo non corrotti, prevedibilità e sicurezza per gli investimenti.
Ma non credo che DS ritenga che ciò avverrà nel giro dei prossimi dieci o venti anni: anzi, l’Africa, dopo una fase promettente, sembra ripiombata nel consueto disastro provocato da governi dittatoriali e corrotti, sostenuti dalle multinazionali delle materie prime, dal petrolio ai diamanti (si vedano i casi di Costa d’Avorio e Zimbabwe, che si aggiungono a quelli consueti di Congo, Liberia, e così via).
Il trasferimento non di cibo o di istituzioni, ma di semi adatti per i terreni e il clima dei paesi poveri può essere una soluzione che consente a migliaia e migliaia di contadini che oggi vivono – e spesso muoiono – tra gli stenti imposti da una agricoltura tradizionale.
Per quanto riguarda Vandana Shiva e l’agricoltura tradizionale: vai, caro DS, a fare un giro in Niger o in Burkina Faso, o in Ciad o nel Benin, in zone desertiche dove la gente fa da sempre sforzi sovrumani per far crescere quattro verdure, o magari nel Bangla Desh dove la gente fa sforzi altrettanto sovrumani per produrre cibo tra paludi e alluvioni, e vedi se e quanto è peregrina l’idea che “l’agricoltura dei paesi poveri possa svilupparsi solo valorizzando le proprie differenze”.
La verità è che in tutti questi paesi già si pratica l’agricoltura strettamente tradizionale e ben poche sono le speranze di incrementare la produttività perché fertilizzanti, pesticidi e nitrogeni costano molto di più di semi organicamente modificati, e nessuno se li può permettere.
Così i suoli non fertilizzati vengono abbandonati all’erosione, alla ricerca di nuove aree da consumare velocemente e da buttare: questo è il prototipo non del rispetto dell’ambiente, ma dell’agricoltura ambientalmente insostenibile (si vedano in questo senso le osservazioni e le previsioni di uno dei più grandi studiosi dell’agricoltura moderna, T.Dyson, World food trends and prospects to 2025. Proceedings Naional Academy of Sciences, 96, 1999, pagg. 5929-5936).
Certo, l’obiettivo non è facile.
In parte, ma solo in parte, perché c’è un sistema di proprietà intellettuale esteso ai PAGM che impedisce la libera diffusione di queste colture. Ed è questo uno dei punti sui quali a livello internazionale andrebbe aperto il confronto.
Ma – volendo tralasciare ora il discorso sulle possibile modifiche di questo sistema – scopriamo che la produzione di PAGM non è affatto una tecnologia complessa che solo pochi paesi ricchi sono in grado di realizzare: è invece una tecnologia relativamente semplice che è nell’ambito delle capacità tecnologiche di molti paesi poveri, tra cui Cina, India, Brasile, Corea del Sud, Indonesia, Filippine (dove da anni opera con successo l’International Rice Research Institute – IRRI) e, in Africa, Egitto e Nigeria (dove con aiuti internazionali è da qualche anno in attività l’International Institute For Tropical Agriculture – IITA) (su tutte queste esperienze si veda Maarten J. Chrispeels Biotechnology and the Poor, in Plant Physiology, 2000, 124, pp. 3-6 consultabile in www.plantphysiol.org/cgi/content/full/124/1/3?view= full&pmid=10982415).
Un’ultima, più generale considerazione.
I paesi europei, ricchi, grassi e egoisti, avendo molto più cibo di quanto possono usare, non hanno alcun bisogno di innovazioni nell’agricoltura, né di PAGM che rischiano solo di compromettere una stabilità agricola raggiunta a forza di misure protezionistiche (in barba alla tanto conclamata globalizzazione, attuata solo dove serve ai paesi ricchi) e di sovvenzioni di ogni tipo (che consumano ogni anno la metà delle disponibilità finanziarie dell’Unione europea).
Dall’altra parte, c’è un mondo che cerca i mezzi e gli strumenti tecnologici e finanziari per affrontare i problemi posti da oltre 600 milioni di affamati (stime ONU), e sono problemi che provocano, e provocheranno ancor più, deterioramento e disastri ambientali di vasta portata: non dimentichiamo che fin dagli anni Ottanta il Rapporto Brundtland ha segnalato che “se l’ambiente distrutto provoca povertà, la povertà provoca distruzione dell’ambiente”.
I movimenti ambientalisti diffondono la preoccupazione per futuri, improbabilissimi pericoli che i PAGM potrebbero provocare alla salute e all’ambiente (dimenticando che da anni i PAGM sono coltivati in miloni di ettari di terreno “contaminato” e distribuiti ai consumatori senza che alcuna conseguenza certa si sia verificata alla salute o all’ambiente) e non dicono una sola parola in merito ad un governo dell’agricoltura che protegge i grassi paesi europei e produce fame e distruzione dell’ambiente nei paesi poveri.
Come ha detto il segretario generale della Fao Diouf aprendo l’ultima assemblea generale svoltasi a Roma, parlando dei movimenti antiglobalizzazione e antibiotecnologie: “Non è un loro problema”.

Stefano Nespor

E TORINO INFINE INIZIÒ A RESPIRARE

“Che cosa poi sia questo benedetto ‘modello Fiat’ – a parte l’attitudine all’obbedienza, l’inquadramento disciplinare, il conformismo, il fantozzismo congenito, lo spirito sabaudo-militaresco, l’inchino ai superiori, l’odio per i superiori sublimato in eroica rassegnazione, l’inclinazione vagamente servile, lo spirito monoculturale (come quello dei cubani vessati dalla canna da zucchero), l’allineamento esistenziale, il grigiore dimesso, il lamento sommesso, l’imprecazione soffocata, l’umorismo da utilitaria, il sesso in utilitaria, la mistica da utilitaria – a parte questo sia pur provvisorio elenco di irrilevanti quisquilie che certo non intaccano l’amore che tutti noi (isole comprese) portiamo alla gloriosa città di Torino, che cosa sia in positivo, questo ‘modello Fiat’, pochi riescono a capirlo”. (immigrato pugliese a Torino ormai residente in collina)

In tutto questo c’è da dire che la città, Torino appunto, prepara il suo “piazzale Loreto”.

Il suo principe è nel silenzio, i fedelissimi si squagliano, calano sipari dappertutto, ci si guarda intorno e gli esperti “dell’avevamo detto” proliferano.

Capitiamo “in una giornata pesante”, così ci fanno notare gli uomini Fiat di via Nizza se perfino sul Corriere della Sera Alessandro Penati elenca in un lungo articolo i motivi di “una crisi annunciata” recuperando per metà pezzo tutte le volte in cui era stato detto: “Tutto si può dire della crisi Fiat, ma non che fosse imprevedibile”.

Evidentemente l’aveva scritto che c’erano dei rumori strani nella Stilo, sfiati nella Panda, tosse al trattore, tutto è stato scritto, ma in tutto questo c’è da dire che i passanti senza capacità d’analisi approfondite esultano all’idea di vedere finalmente scavare la metropolitana (quella metropolitana mai voluta dal Principe).

Tutti stanno col naso all’insù e non è neppure vero che la “Pinacoteca Marella e Gianni Agnelli” sia stata una donazione fatta alla folla, certamente è stato un gesto di mecenatismo rinascimentale certificato naturalmente dall’arrivo del presidente della Repubblica (dalla mobilitazione di tutti gli organi di stampa e diffusione), ma fatti salvi i dovuti accorgimenti notarili, i quadri spettacolari, le meravigliose tele, le sublimi croste, sono e restano gioielli di famiglia.

In ambienti pratici della materia ci hanno spiegato che sono stati dati in “comodato”, non dunque regalati, e possono tornare utili perfino nell’eventualità di un’accensione di mutuo per dire.

E nessuno qui scherza con la mobilia, naso all’insù e mani in tasca, è difficile trovare qualcuno disposto ad abbandonarsi a elaborazioni sociologiche, ma ad ogni modo non è vero neanche che lo “scrigno” collocato sul Lingotto da Renzo Piano per contenerci i Picasso e i Balla sia uno scrigno, è solo uno scatolone in superfetazione.

L’ingegnere G. M. che ci accompagna dà di spalla e dice: “Le sembra questo gran capolavoro?”.

Chissà se è un capolavoro il tanicone con i quadri dentro, e chissà se per il fatidico “Comune” è stato un affare prendersi in carico il mammozzone del Lingotto con tutti i suoi incredibili costi di ristrutturazione, ma questa poi, è solo una città dove capita ancora di vedere una Marea ferma al semaforo, non certo una Toyota, e in tutto questo c’è da dire che tira aria di smobilitazione.

Le commesse destinate ai negozi che sfilano nel quartierone obbligato del primo piano del Lingotto se ne stanno braccia conserte aspettando e aspettando.

Ma magari ci fossero dei viaggiatori di commercio alloggiati al Méridiene con cui fare filarini, ci sono solo umani in attesa di eventi mediatici.

Adesso è la volta del gusto e in tutto questo c’è da dire che viene bene quell’immagine che spiega Torino con la fenomenologia dell’avanspettacolo: finita la stagione del Salone dell’auto è cominciata quella del Salone del gusto.

Dalla classe dirigente dell’industria pesante, si è arrivati perciò alla classe digerente dell’industria ruminante.

Più o meno, oltre a tutti i guai noti e ampiamente commentati, è successo anche che si è passati da Vittorio Valletta a Gianfranco Vissani.

Fiore all’occhiello del capitalismo italiano, Torino è la città dove però il capitalismo s’è sottratto alle sue responsabilità.

Quelle dell’emancipazione innanzitutto, ovvero la riscossa del suo arbeiter, la libertà del suo popolo per dirla in quei termini carnali che inevitabilmente sono termini spirituali: “Hanno succhiato la fede dal cuore del popolo”.

Così ci spiega un sacerdote che in Fiat ha avuto il padre, un operaio (era il tempo in cui la Fiat organizzava i pellegrinaggi a Lourdes, mai più fatti dopo), e oggi ha un fratello che ci fa affari con quell’azienda di città da piccolo imprenditore dell’indotto.

Parroco in una chiesa che raccoglie tanta gente non propriamente catalogabile nelle categorie cosiddette elevate, il prete che pure ha all’attivo studi marxiani ma che è tutt’altro che un prete-operaio, ci conduce al nocciolo di un forte guaio: “Libertà, c’è bisogno di respirare più libertà.

Si vive come in una gabbia a Torino, ogni piccolo e impercettibile movimento è un vuoto girare su se stessi, pilotato dall’alto poi, perché questa è pur sempre la città di Luciano Violante e di Giancarlo Caselli.

Ecco, ci vogliono persone nuove (sapesse quante ce ne vorrebbero anche in Curia), persone che non abbiano complessi d’inferiorità verso i soliti bodratiani, verso gli amici di Oscar Luigi Scalfaro, verso i sindacati, anzi, verso il potentissimo sindacato, e avversare finalmente quel che è rimasto del patto di ferro tra Partito comunista e Fiat.

Avversare quindi quel che è diventato il patto, dato che Pci e Fiat hanno un volto nuovo ma se la risolvono al solito modo”.

A questo punto chiediamo ulteriori lumi: “Faccio un esempio.

E’ capitata una disavventura giudiziaria al sindaco, il diessino Sergio Chiamparino quegli altri della Casa delle libertà si sono precipitati nella difesa.

Tutto bene, però, secondo me, hanno peccato di signorilità in eccesso.

Se la stessa cosa fosse accaduta al presidente della Regione, Enzo Ghigo, se a Ghigo fosse arrivata una tegola della magistratura, mi creda, l’avrebbero impiccato in piazza Castello dopo due minuti”.

Una cappa di tempo orribile ottunde gli umori dei metereopatici, e siccome in tutto questo c’è da dire che la città non è solo quella di Caselli & Violante, ma soprattutto è la città severa e accigliata dell’Azionismo, del Politecnico, dei santi laici Antonio Gramsci e Piero Gobetti, si capisce che pochi possono filarsela via da questa cappa di conformismo dove il fantozzismo è lo stile, ma moltissimi sono gli esclusi.

Sono tanti quelli tenuti fuori dal banchetto del potere.

I cattolici innanzitutto, coscienziosamente esclusi da una città che all’indomani del disastro Fiat sembra assomigliare a una città sovietica all’indomani della caduta del Muro di Berlino.

“L’immagine calza a pennello, a patto che nel ruolo del vopos smarrito ci mettiamo il cardinale Severino Poletto”.

E così che interviene un giovane sacerdote.

Viene incontro al suo parroco e il discorso allora sconfina sul piano delle sudditanze.

Ancora ridono all’idea che l’arcivescovo abbia rilasciato un’intervista ad Avvenire parlando della crisi della Fiat con toni da manager. C’è da ridere infatti: “Cosa vuole, è la Chiesa della collaborazione quella.

Non hanno consistenza nella fede e si fanno avanti per collaborare.

Invece che portare Cristo, pur di farsi accogliere nei piani alti, si lasciano trascinare dall’ansia di farsi ricevere, di farsi riconoscere un ruolo sociale, ma la Chiesa non deve avere complessi, quando il Papa venne a Torino, il 13 aprile 1980, alla città dei ‘santi sociali’ dell’Ottocento, a questa città senza più santi, disse chiaramente ‘Ma Cristo c’è.

Ed Egli basta per ogni tempo: Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!'”.

In tutto questo c’è da dire che la città ne ha macinati tanti di destini.

Buttiamola pure sull’antropologia, ma possiamo non raccogliere questo sfogo di un immigrato pugliese arrivato ad abitare in collina? “Nella Torino che conta, quando intendono esprimere riprovazione per un comportamento, un modo di essere, uno stile di vita, dicono: ‘non è un modello Fiat’.

Che cosa poi sia questo benedetto ‘modello Fiat’ – a parte l’attitudine all’obbedienza, l’inquadramento disciplinare, il conformismo, il fantozzismo congenito, lo spirito sabaudo- militaresco, l’inchino ai superiori, l’odio per i superiori sublimato in eroica rassegnazione, l’inclinazione vagamente servile, lo spirito monoculturale (come quello dei cubani vessati dalla canna da zucchero), l’allineamento esistenziale, il grigiore dimesso, il lamento sommesso, l’imprecazione soffocata, l’umorismo da utilitaria, il sesso in utilitaria, la mistica da utilitaria – a parte questo sia pur provvisorio elenco di irrilevanti quisquilie che certo non intaccano l’amore che tutti noi (isole comprese) portiamo alla gloriosa città di Torino, che cosa sia in positivo, questo ‘modello Fiat’, pochi riescono a capirlo”.

Buttiamo un occhio nell’archivio, c’è un ritaglio del gennaio 1996 firmato dalla chansonnier Gipo Farassino che vale l’intera opera omnia di Valerio Castronuovo: “La Fiat? Se non ci fosse mai stata la nostra regione sarebbe più ricca e prosperosa.

Per il Piemonte è stata una tragedia.

Gli Agnelli hanno commesso veri e propri crimini industriali.

Loro sono i padroni per antonomasia.

Si sono insediati qui in Piemonte e attraverso un discorso di accerchiamento dei mercati hanno creato una situazione sociale di spaventoso disagio.

Certo, hanno portato lavoro e ricchezza ma determinando la distruzione dell’identità collettiva della nostra gente che si è dovuta chiudere a riccio di fronte a una massiccia immigrazione continua negli anni.

Il gruppo Fiat prima ha spopolato le campagne piemontesi offrendo il presunto posto sicuro; poi ha portato nella nostra terra milioni di sradicati.

Oltre a questa colpa originaria, la Fiat ha la responsabilità di aver creato con l’indotto una pletora di falsi industriali.

Bastava avere trecento milioni e un amico all’ufficio acquisti e si diventava imprenditori.

Si costruiva un capannone e via. Però quando la casa madre chiudeva i rubinetti, mentre il falso imprenditore aveva fatto i soldi, i lavoratori venivano, come vengono, sbattuti per strada. E la situazione è destinata a peggiorare.

La Fiat andrà a costruire dove costa meno”.

In tutto questo c’è da dire che la situazione è già peggio di come l’aveva immaginata Farassino, Termini Imerese è pronta per essere data in comodato alla Regione Siciliana (con l’usufrutto a carico di Silvio Berlusconi), nessuno se la sente di parlare mettendoci nome, cognome e paternità, ma qui hanno imparato a godersela anche in piena eutanasia.

Nei locali arabi di via Sant’Agostino, all’Hafa Cafè per esempio, si fanno le tre di notte e finalmente sotto lo sguardo del Re.

Non più un Savoia, ma propriamente il sovrano del Marocco.

Qui c’è il cuore del centro storico, un tempo abbandonato dai torinesi, diventato ostello degli extracomunitari, oggi smagliante salotto grazie al genio dell’imprenditore edile De Giuli, consuocero di Valentino Castellani, l’ex sindaco, che seppe trasformare un intero tratto stradale grazie a una felice speculazione meritoriamente attrezzata di calce, regolo e cazzuola.

Se la godono a Torino e devono darsi tanti di quei baci (devono proprio toccarsi tanto) se nei taxi, tra gli avvisi sulle tariffe, devono scriverci a chiare lettere che è proibito il proibito: “Proibito compiere atti contrari alla decenza e al buon costume”.

In tutto questo salta all’occhio un dettaglio niente male, Torino è l’unica metropoli dove la grande criminalità organizzata non ha mai messo piede, tanto è pesante l’aria, e sempre per riprendere le parole del sacerdote con cui discutiamo, ovvero la necessità “di più libertà”, non è affatto un parados so quello di immaginare Corleone sotto Totò Riina più disinvolta di quanto non possa essere Torino sotto il peso della sua lagnosa superiorità morale.

Qui dove tutti si chiamano per cognome e mai per nome, nessuno parla, vede o sente.

Moraleggiano piuttosto, dall’alto di importanti case editrici, dall’alto di una tradizione fatta di memorialistica, quella da lapide funeraria dove è d’obbligo vantare e inventare solo titoli di merito.

Nel febbraio del 1967 la Stampa celebra se stessa dimenticando tutto il periodo che corre dal 1925 al 1945 per dimenticare così i quattro direttori del “Ventennio” e cioè Andrea Torre, Concetto Pettinato, Curzio Malaparte e Alfredo Signoretti, ed è una fortuna che poi, in questi insopportabili imbarazzi ci siano i prìncipi a risolvere le fetecchie dei servi.

Durante una cerimonia nell’anniversario dell’Unità d’Italia, Gianni Agnelli incontra Signoretti e alla presenza di Valletta, davanti a tanti giornalisti, lo saluta platealmente (e cordialmente) dicendogli: “La Stampa va bene; ma le tirature dei suoi tempi non sono state più raggiunte”.

Il prìncipe faceva riferimento alla cifra record di un milione e trecentomila copie.

“Fu la massima tiratura raggiunta – così ricordava Signoretti nel libro ‘La Stampa in camicia nera’ – e fu glorificata in un calco di piombo e bronzo che fu offerto all’allora vivente senatore Giovanni Agnelli”.

Era il 9 maggio 1936, il giorno della proclamazione dell’Impero e il giornale di Norberto Bobbio e Galante Garrone strillava in prima pagina questo titolo: “Ritorna l’Impero sui colli fatali di Roma”.

“Speriamo che non se ne vadano anche le Alpi”, questo è il distico che Aldo Cazzullo mette in un capitolo del suo libro “I Torinesi” (Laterza).

E siccome in tutto questo tutto torna, Cazzullo per questa guida alla città sembra quasi segnalare quella che in assoluto è la bibbia del pregiudizio etico piemontese, ovvero “L’uomo delinquente”, il capolavoro di Cesare Lombroso.

Tutto torna appunto, è il tic di questa città affacciata al suo prossimo trauma è ancora una volta il “sogno di catalogare il male”, di armare i suoi soldati per cingere d’assedio tutte le cittadelle della “cattiveria morale”.

Fosse pure il Sud del Sud dei Santi (manifesto teatrale di Carmelo Bene a cui Torino dedica in questi giorni una mostra), fosse pure ieri, contro “gli intellettuali della Magna Grecia (e ancora l’altrieri, contro i briganti lucani, partenopei e calabresi).

E in tutto questo c’è un caravanserraglio che avanza oltre Porta Palazzo fin dentro i reticoli della casbah di piazza della Repubblica (il nome istituzionale di Porta Palazzo).

“Il caravanserraglio avanza, i cammelli sono possenti, i cavalieri stanno in alto, ci sono i cani che abbaiano, ma non possono farci del male.

Al cammello basta dare una zampata per allontanarli, per noi è sufficiente non dare loro retta”.

E’ così che ci parla Bouchta Bouriqi, l’imam di Torino che certamente non segue il cardinale Poletto nella gara della collaborazione con il potere.

E’ impressionante quanto invece sia simile nella fatica della sua testimonianza di fede ai sacerdoti cattolici che “si cuccano i poveri, quelli poveri poveri”.

I cani che si sente abbaiare addosso, metaforicamente parlando, per carità, sono i soliti esponenti di Alleanza nazionale.

In questa città dove tutto è regolato dalla danza di monadi incomunicabili tra di loro, una città dove ognuno resta ciò che è, l’imam Bouchta si occupa solo dei suoi ragazzi, sono quelli che deve strappare alla strada, al furto e allo spaccio (“Io dico loro: con questi soldi sporchi non potete andare a Mecca, non potete fare il pellegrinaggio, non potete crescere i vostri figli. Sono soldi impuri. Loro capiscono”).

L’imam si muove tra la sua gente con il tratto e il tatto del Capo.

E’ incredibile come si ripetano sempre i codici di riconoscimento nel territorio.

“I poveri poveri, ce li cucchiamo noi” dice il sacerdote con il collare.

“I poveri poveri entrano fin dentro la mia macelleria per rubare” dice l’imam alto e magro senza cravatta: “Io dico loro.

Se avete fame ditelo a me, non rubate. Vi do dieci euro, venti euro. Ma non rubate.

Io vado alle Vallette, in carcere, a trovare i detenuti e dico sempre a loro, non rubate, non fate il male perché qui siamo ambasciatori dell’Islam”.

All’imam Bouchta che per sua fortuna non ha mai avuto a che fare con la cultura della schiatta azionista, con il mecenatismo della Fondazione Agnelli e con gli articoli di Maurizio Viroli, chiediamo come possa sentirsi a vivere in questa città detta altrimenti “città dell’Anticristo”.

Ci risponde spiegandoci come attraverso le falangi delle dita, con l’insieme di tutte le dita, si possano calcolare i tempi e i numeri delle preghiere. “Non una di più, non una di meno”.

Questa risposta, a voler seminare zizzania, meriterebbe una riflessione del cardinale, a meno che non voglia riprendere quella riflessione di Gustavo Zagrebelsky, intimo di Oscar Luigi Scalfaro, collocato nella Corte costituzionale, quando a proposito di Cristo e Barabba disse che la scelta di allora era la stessa scelta di oggi: andare contro Berlusconi o a favore di Berlusconi? Ovvero a favore di Barabba, notorio ladrone.

C’è da rifarsi le orecchie ad ascoltare l’imam Bouchta, ci racconta la storia di un’emigrazione che comincia e ricomincia sempre. E sempre alla ricerca di quello che lui chiama “benessere e giustizia”.

Torino per lui è il futuro, intorno a lui crescono tre figli, i suoi fratelli di fede, la comunità di destino che anche sotto questa pioggia sa farsi popolo.

Ci vuole un occhio addestrato ai codici del digiuno che si fa ragione del sazio per cogliere i reticoli del carisma di quest’uomo. Lui è il sindaco del rione Porta Palazzo.

Non vorremmo turbare troppo Ferdinando Ventriglia e Agostino Ghiglia, i due esponenti di Alleanza nazionale che lo tallonano per un equivoco di ruoli più che per convinzione, ma la storia appartiene al popolo e, infatti, si dice sempre “Terra per quanto ne puoi avere dentro agli occhi, Casa per quanto ti basta”.

All’imam che fa il macellaio ma ha lavorato alla pressa e al tornio, all’imam che parla un italiano immacolato, chiediamo un parere sulla crisi della Fiat. La domanda è fessa.

Disarmante è la risposta: “Io bevo nella tazzina il caffè, ma non c’era la tazzina al tempo del Profeta. Io uso il telefonino, ma non c’era il telefonino al tempo del Profeta.

Io ieri sono andato in banca per fare un versamento, ma non c’era la banca al tempo del Profeta”.

Capita l’antifona.

Fino ad oggi c’è stata la Fiat e, in tutto questo, c’è da dire che appunto, non c’era proprio al tempo del Profeta.

C’era il lavoro.

L’ANIMALE PARLANTE

The human faculty of language appears to be organized like the genetic code – hierarchical, generative, recursive, and virtually limitless with respect to its scope of expression.

La facoltà umana del linguaggio appare essere organizzata come il codice genetico: gerarchica, generativa, ricorsiva e virtualmente illimitata quanto alle sue possibiltà espressive.

Hauser, Chomsky e Fitch (Science 2002)

Prefazione

Questo libro contiene una breve introduzione alle scienze del linguaggio destinata sia a chi è curioso di conoscere i molti risvolti di questa facoltà prettamente umana, che la maggioranza di noi dà per scontata, sia agli studenti universitari di uno dei tanti corsi di laurea che includono un insegnamento di linguistica in varie Facoltà umanistiche e scientifiche, sia, e forse soprattutto, ai giovani che non abbiano ancora deciso il proprio indirizzo di studio e siano interessati a scoprire i molteplici risvolti del linguaggio. È una introduzione nel senso letterale della parola: senza nessuna pretesa di esaustività o di approfondimento ha l’intenzione di iniziare il lettore a un mondo complesso e di stimolare lo studente ad approfondire uno o più dei campi che vi sono trattati.
Mentre tradizionalmente gli studi linguistici in Italia sono considerati letterari, si scoprirà in questo libretto che essi non necessariamente sono tali. Anzi, molte delle discipline linguistiche più all’avanguardia oggi sono idonee e potranno dare grande soddisfazione a chi sente di avere il ‘pallino della matematica’. Queste vanno dalla psicologia cognitiva alla neuropsicologia, dalla linguistica formale all’informatica, dalle scienze dello sviluppo allo studio della comunicazione animale.
L’esigenza di scrivere questo libro è nata appunto dal voler indicare diverse strade adatte a persone con interessi di base diversi, per una comprensione più profonda di quella che è probabilmente la caratteristica che più di ogni altra distingue la nostra specie dalle altre specie del mondo animale.
Ogni capitolo è leggibile indipendentemente dagli altri, anche se la prima parte sulla competenza linguistica forma una base per una maggiore comprensione del resto del libro.

Indice

Premessa
Ringraziamenti
Indice
1. Introduzione alle scienze del linguaggio
2. Parliamo perché pensiamo o pensiamo perché parliamo? Linguaggio e pensiero

Parte Prima
La competenza linguistica
3. La forma dei suoni linguistici: Fonetica
4. La struttura del messaggio sonoro: Fonologia
5. Dentro la parola: Morfologia
6. Le parole nella frase: Sintassi
7. Il significato delle espressioni linguistiche: Semantica
8. Tra lingua e musica: Metro poetico

Parte Seconda
Linguaggio e Scienze Cognitive
9. Lo sviluppo del sistema linguistico nell’infanzia: L’acquisizione della madrelingua
10. Disturbi del linguaggio: afasia e deficit congeniti
11. Vedere il linguaggio: La lingua dei segni
12. Codici circoscritti: La comunicazione animale

Parte Terza
Variazione linguistica
13. Di generazione in generazione: Il cambiamento linguistico
14. La creazione del linguaggio: Dai pidgin alle lingue creole
15. Rappresentazioni visuali: Sistemi di scrittura

16. Ulteriori prospettive nelle Scienze del Linguaggio

Riferimenti bibliografici
Indice Analitico

Capitolo 1. Introduzione
Questo libro è destinato a chi si è mai chiesto, o desidera cercare di capire, perché noi parliamo, mentre non parlano gli animali intorno a noi, che pure sembrano essere capaci di comunicare alcune informazioni e con i quali siamo in grado di comunicare alcune intenzioni. Il presente testo è una prima esplorazione nel mondo del linguaggio, una delle principali facoltà che distinguono gli esseri umani dagli altri esseri del mondo animale. Tratta dell’abilità, che accomuna gli esseri umani, a comunicare i loro messaggi in un modo sorprendentemente preciso e naturale. Abbiamo definito ‘naturale’ tale comunicazione perché essa si sviluppa negli esseri umani a contatto tra di loro senza alcuna istruzione esplicita fin dal primo giorno della loro vita. Il fatto che solo gli esseri umani esposti al linguaggio lo acquisiscano, rende il linguaggio una caratteristica biologica della nostra specie. E il fatto che una lingua si impari perfettamente e senza sforzi nei primi anni di vita, e mai in maniera perfetta, nonostante i grandi sforzi, da adulti, fa del linguaggio una disposizione genetica che sparisce ad un certo punto dello sviluppo, come spariscono i denti da latte.
Questo viaggio esplorativo nel mondo del linguaggio non si soffermerà perciò solo sui diversi aspetti della grammatica delle lingue naturali, ma anche su come questi aspetti si acquisiscano da bambini. Tratta cioè dell’inevitabilità dell’acquisizione del linguaggio in bambini senza deficit specifici esposti ad una lingua naturale e delle tracce che tale lingua lascia nel nostro cervello e che si manifestano chiaramente nel cosiddetto ‘accento straniero’ quando impariamo una nuova lingua da adulti.
Dato che sul nostro pianeta vengono parlate circa seimila lingue diverse, è chiaro che non ci può essere nulla di necessario nella relazione tra suoni e significati: essi sono infatti arbitrari. Il linguaggio specifico cui si è esposti va perciò imparato. Ma questo apprendimento avviene senza che ce ne rendiamo conto nei primi anni di vita. Le lingue non differiscono tra di loro solo per il lessico, ma anche per avere strutture grammaticali diverse: chi imparasse tutte le parole dell’inglese ma tentasse di disporle secondo la sintassi e la fonologia dell’italiano, otterrebbe un sistema che potremmo chiamare ‘inglese maccheronico’. Una lingua infatti è costituita sia dal lessico sia da strutture precise che ne formano la grammatica, ed un essere umano venendo al mondo deve imparare queste due componenti del linguaggio cui è esposto.
Sotto le grandi differenze superficiali che si possono notare tra lingue diverse, le strutture grammaticali sono simili se analizzate in modo sufficientemente astratto: dei principi universali governano la loro struttura, sia che si tratti di struttura interna alle parole o alle frasi, sia che si tratti di struttura che governa i suoni o i significati. La grammatica è infatti un sistema formale in cui alcune strutture sono ammesse e altre no. Una lingua può cioè ‘scegliere’ determinate strutture grammaticali solo tra quelle che sono universalmente possibili. Data la numerosità delle lingue del mondo si può assumere che una grammatica non attestata in nessuna lingua sia una grammatica impossibile da apprendere per il cervello umano dotato della anatomia e della fisiologia attuali. Si fa cioè l’assunzione che i principi validi per tutte le lingue siano universali e che non possano esistere lingue che li violano. Va notato che questa teoria della grammatica non nasce da una necessità logica, ma presuppone un metodo scientifico che ci permette di fare ipotesi falsificabili. L’approccio della linguistica moderna, dovuto alla rivoluzione nel modo di pensare al linguaggio iniziata da Noam Chomsky, consiste nel fare le massime generalizzazioni possibili che siano coerenti con i dati a disposizione. Se si trovano lingue che rappresentano controesempi all’ipotesi, si farà un’ipotesi di portata inferiore. Se invece non si trovano controesempi, si sarà fatto un grande passo avanti nella comprensione del meccanismo del linguaggio. Lo studio approfondito dei sistemi grammaticali ci offre perciò uno strumento prezioso per capire molteplici aspetti della mente umana.
Una caratteristica della competenza grammaticale della madrelingua, su cui ci soffermeremo, consiste nel fatto che non possediamo tale competenza in modo cosciente. Tutti sappiamo, per esempio, come usare la parola ne in italiano. Ma se, senza essere linguisti, proviamo a spiegare a una persona che non sa l’italiano come usarla, ci accorgiamo che non ne siamo in grado. La conoscenza che abbiamo della parola ne, e di gran parte della grammatica, è pertanto una conoscenza particolare, in quanto non siamo consapevoli di come la usiamo: impariamo a parlare come impariamo a vedere o a camminare: senza avvederci dei meccanismi che governano le varie competenze che acquisiamo.
Nel percorso che seguiremo in questo libro considereremo quasi esclusivamente la lingua orale, e il suo corrispondente nella modalità manuale usata nelle lingue dei segni. La lingua scritta, invece, non è una espressione naturale nel senso in cui lo sono la lingua orale e la lingua dei segni. È infatti determinata da una convenzione sociale che va appresa con un’apposita istruzione esplicita di durata variabile: da un anno nel caso della scrittura alfabetica, che viene usata per esempio in italiano, a cinque anni, nel caso della scrittura che usa caratteri, che viene usata per esempio in cinese.
Inoltre la forma scritta non accomuna tutti gli esseri umani, ma piuttosto la sottoclasse di questi, che consiste di persone adulte e partecipi di una cultura scritta: quindi un sottoinsieme naturale – gli adulti – che appartengono ad un sottoinsieme culturale – coloro che hanno appreso la grafia. La lingua orale accomuna invece tutte le persone udenti e senza deficit specifici, indipendentemente dalla loro cultura.
Abbiamo detto ‘persone udenti’ perché per potere acquisire la capacità di parlare, senza istruzioni esplicite, bisogna sentire la parlata di altri. Non esistono i sordo-muti, o meglio, i sordi non sono in genere anche muti: chi non impara a parlare, generalmente non impara esclusivamente perché non sente. Essi acquisiscono però un altro linguaggio se esposti ad esso: il linguaggio dei segni, un linguaggio che condivide molte caratteristiche strutturali col linguaggio orale, ma non, ovviamente, la modalità. È, però, un linguaggio naturale, nel senso che viene appreso, in modo del tutto simile al linguaggio orale, e con tappe del tutto simili, da bimbi esposti ad un ambiente in cui i segni siano il mezzo espressivo usato. Che si possa pronunciare quello che si sente, possiamo dedurlo anche dall’accento straniero: se, essendo parlanti nativi dell’italiano, omettiamo il suono aspirato all’inizio di parole inglesi come hear o harbour è perché non lo sentiamo. Anche le persone udenti hanno infatti un tipo di ‘sordità’, limitata alle lingue straniere.
Non solo gli esseri umani hanno un modo di comunicare tra di loro (con suoni o con segni): anche altri animali hanno il modo di scambiarsi informazioni di vario tipo. La loro comunicazione, che prende forme assai diverse nelle diverse specie, è però sempre limitata ad un numero fisso di messaggi. Non ha cioè la caratteristica principale che definisce il linguaggio umano, che consiste nella capacità di formare frasi nuove e forse mai sentite. Infatti il linguaggio umano è creativo e la creatività si basa su un meccanismo computazionale che è assente dalla comunicazione animale e che ha invece molti aspetti in comune con la nostra abilità matematica. Il linguaggio umano è perciò un sistema formale che ha una base biologica.
La base biologica del linguaggio è chiaramente osservabile in persone con deficit specifici del linguaggio, sia genetici sia acquisiti. È infatti noto che bambini con un livello di intelligenza nella norma possano avere problemi nello sviluppo linguistico tendenti a manifestarsi in modo simile, come la difficoltà ad imparare la struttura morfosintattica. La recente scoperta di una famiglia in cui diversi membri avevano questo tipo di deficit ha portato alla scoperta di un gene del linguaggio. Inoltre casi di afasia, cioè di deficit linguistici acquisiti, hanno portato alla localizzazione di alcune aree del cervello specificamente preposte al controllo linguistico, localizzazione che arriva a livelli di specializzazione sorprendenti come nel caso di un paziente che dopo un ictus ha avuto disturbi fonologici che riguardavano quasi unicamente le vocali, e in quello di un altro paziente che in seguito a un ictus, in una zona lievemente diversa, ha avuto disturbi quasi unicamente riguardo alle consonanti. La localizzazione di aspetti specifici del linguaggio diventa sempre più precisa anche grazie alle moderne tecniche non invasive di neuroimmagine che ci permettono di vedere quali aree si attivano durante compiti linguistici specifici.
Le lingue umane sono sistemi in costante modificazione e i cambiamenti che subiscono sono messi in moto dall’uso. Una lingua parlata in una comunità linguistica, la cui grammatica e il cui lessico rimangano immutati non esiste: anche se molti resistono alle innovazioni nella loro madrelingua, questa continuerà il suo processo. Se il processo non ci fosse, non avremmo spiegazione del fatto che tutte le lingue romanze hanno caratteristiche grammaticali e lessicali diverse da quelle del progenitore comune: il latino. I cambiamenti che portano a delle variazioni linguistiche sono sempre dello stesso tipo: sia che avvengano nel corso della storia, sia che distinguano due varietà regionali della stessa lingua, sia che facciano parte della competenza di un singolo parlante in un dato momento.
Questo libro avrà raggiunto il suo scopo se avrà suggerito che il linguaggio è un fenomeno meraviglioso e per molti versi misterioso la cui investigazione può – e deve – partire da campi scientifici diversi: solo la convergenza di dati ottenuti con metodologie diverse ci può portare a veri progressi nella sua comprensione.

Quarta di copertina
Siamo abituati a considerare il parlare un’attività che non richiede sforzi specifici: ci viene in mente di dire qualcosa e il nostro apparato vocale esegue il compito di tradurre i pensieri in suoni linguistici. Sotto la sua apparente semplicità, il compito di tradurre in suoni il nostro pensiero è in realtà molto complesso.
L’animale parlante è una introduzione ai diversi campi scientifici che si occupano dell’analisi del linguaggio umano, compresi i sistemi linguistici che usano la modalità visivo-manuale, come le lingue dei segni. Il libro comprende, oltre ad una prima parte sulla competenza grammaticale, capitoli sullo sviluppo dei linguaggio nell’infanzia e su diverse patologie linguistiche. Tratta inoltre delle caratteristiche distintive del linguaggio umano confrontato con diversi sistemi di comunicazione animale.
Questo volume si rivolge a chiunque voglia scoprire la complessità del linguaggio umano e conoscere gli obiettivi delle diverse scienze del linguaggio e in particolare agli studenti di uno dei tanti corsi di laurea che includono la linguistica.

Marina Nespor è professore ordinario di Linguistica Generale all’Università di Ferrara. I suoi principali interessi scientifici riguardano la struttura del messaggio sonoro e il modo in cui questa è utilizzata durante l’acquisizione della madrelingua come chiave alla scoperta del sistema linguistico. E’ stata affiliata per molti anni all’Università di Amsterdam e a HIL (Holland Institute of Linguistcs) e collabora ora con il Centro di Neuroscienze Cognitive della SISSA di Trieste. Tra i suoi lavori figurano i libri Prosodic Phonology, coautore, (1986, Foris) e Fonologia (1993, il Mulino) oltre a numerosi articoli in riviste internazionali.

Donna Jo Napoli è professore ordinario di Linguistica Generale a Swarthmore College, negli Stati Uniti. La sua ricerca si concentra sulla sintassi dell’italiano e sulla morfologia della lingua dei segni americana. Fra i suoi libri figurano testi pedogogici come Syntax: Theory and Problems (1993, Oxford University Press) , testi scientifici come Predication Theory: a Case Study for Indexing Theory (1989) Cambridge University Press e testi divulgativi come Language Matters (2003, Oxford University Press).