E TORINO INFINE INIZIÒ A RESPIRARE

“Che cosa poi sia questo benedetto ‘modello Fiat’ – a parte l’attitudine all’obbedienza, l’inquadramento disciplinare, il conformismo, il fantozzismo congenito, lo spirito sabaudo-militaresco, l’inchino ai superiori, l’odio per i superiori sublimato in eroica rassegnazione, l’inclinazione vagamente servile, lo spirito monoculturale (come quello dei cubani vessati dalla canna da zucchero), l’allineamento esistenziale, il grigiore dimesso, il lamento sommesso, l’imprecazione soffocata, l’umorismo da utilitaria, il sesso in utilitaria, la mistica da utilitaria – a parte questo sia pur provvisorio elenco di irrilevanti quisquilie che certo non intaccano l’amore che tutti noi (isole comprese) portiamo alla gloriosa città di Torino, che cosa sia in positivo, questo ‘modello Fiat’, pochi riescono a capirlo”. (immigrato pugliese a Torino ormai residente in collina)

In tutto questo c’è da dire che la città, Torino appunto, prepara il suo “piazzale Loreto”.

Il suo principe è nel silenzio, i fedelissimi si squagliano, calano sipari dappertutto, ci si guarda intorno e gli esperti “dell’avevamo detto” proliferano.

Capitiamo “in una giornata pesante”, così ci fanno notare gli uomini Fiat di via Nizza se perfino sul Corriere della Sera Alessandro Penati elenca in un lungo articolo i motivi di “una crisi annunciata” recuperando per metà pezzo tutte le volte in cui era stato detto: “Tutto si può dire della crisi Fiat, ma non che fosse imprevedibile”.

Evidentemente l’aveva scritto che c’erano dei rumori strani nella Stilo, sfiati nella Panda, tosse al trattore, tutto è stato scritto, ma in tutto questo c’è da dire che i passanti senza capacità d’analisi approfondite esultano all’idea di vedere finalmente scavare la metropolitana (quella metropolitana mai voluta dal Principe).

Tutti stanno col naso all’insù e non è neppure vero che la “Pinacoteca Marella e Gianni Agnelli” sia stata una donazione fatta alla folla, certamente è stato un gesto di mecenatismo rinascimentale certificato naturalmente dall’arrivo del presidente della Repubblica (dalla mobilitazione di tutti gli organi di stampa e diffusione), ma fatti salvi i dovuti accorgimenti notarili, i quadri spettacolari, le meravigliose tele, le sublimi croste, sono e restano gioielli di famiglia.

In ambienti pratici della materia ci hanno spiegato che sono stati dati in “comodato”, non dunque regalati, e possono tornare utili perfino nell’eventualità di un’accensione di mutuo per dire.

E nessuno qui scherza con la mobilia, naso all’insù e mani in tasca, è difficile trovare qualcuno disposto ad abbandonarsi a elaborazioni sociologiche, ma ad ogni modo non è vero neanche che lo “scrigno” collocato sul Lingotto da Renzo Piano per contenerci i Picasso e i Balla sia uno scrigno, è solo uno scatolone in superfetazione.

L’ingegnere G. M. che ci accompagna dà di spalla e dice: “Le sembra questo gran capolavoro?”.

Chissà se è un capolavoro il tanicone con i quadri dentro, e chissà se per il fatidico “Comune” è stato un affare prendersi in carico il mammozzone del Lingotto con tutti i suoi incredibili costi di ristrutturazione, ma questa poi, è solo una città dove capita ancora di vedere una Marea ferma al semaforo, non certo una Toyota, e in tutto questo c’è da dire che tira aria di smobilitazione.

Le commesse destinate ai negozi che sfilano nel quartierone obbligato del primo piano del Lingotto se ne stanno braccia conserte aspettando e aspettando.

Ma magari ci fossero dei viaggiatori di commercio alloggiati al Méridiene con cui fare filarini, ci sono solo umani in attesa di eventi mediatici.

Adesso è la volta del gusto e in tutto questo c’è da dire che viene bene quell’immagine che spiega Torino con la fenomenologia dell’avanspettacolo: finita la stagione del Salone dell’auto è cominciata quella del Salone del gusto.

Dalla classe dirigente dell’industria pesante, si è arrivati perciò alla classe digerente dell’industria ruminante.

Più o meno, oltre a tutti i guai noti e ampiamente commentati, è successo anche che si è passati da Vittorio Valletta a Gianfranco Vissani.

Fiore all’occhiello del capitalismo italiano, Torino è la città dove però il capitalismo s’è sottratto alle sue responsabilità.

Quelle dell’emancipazione innanzitutto, ovvero la riscossa del suo arbeiter, la libertà del suo popolo per dirla in quei termini carnali che inevitabilmente sono termini spirituali: “Hanno succhiato la fede dal cuore del popolo”.

Così ci spiega un sacerdote che in Fiat ha avuto il padre, un operaio (era il tempo in cui la Fiat organizzava i pellegrinaggi a Lourdes, mai più fatti dopo), e oggi ha un fratello che ci fa affari con quell’azienda di città da piccolo imprenditore dell’indotto.

Parroco in una chiesa che raccoglie tanta gente non propriamente catalogabile nelle categorie cosiddette elevate, il prete che pure ha all’attivo studi marxiani ma che è tutt’altro che un prete-operaio, ci conduce al nocciolo di un forte guaio: “Libertà, c’è bisogno di respirare più libertà.

Si vive come in una gabbia a Torino, ogni piccolo e impercettibile movimento è un vuoto girare su se stessi, pilotato dall’alto poi, perché questa è pur sempre la città di Luciano Violante e di Giancarlo Caselli.

Ecco, ci vogliono persone nuove (sapesse quante ce ne vorrebbero anche in Curia), persone che non abbiano complessi d’inferiorità verso i soliti bodratiani, verso gli amici di Oscar Luigi Scalfaro, verso i sindacati, anzi, verso il potentissimo sindacato, e avversare finalmente quel che è rimasto del patto di ferro tra Partito comunista e Fiat.

Avversare quindi quel che è diventato il patto, dato che Pci e Fiat hanno un volto nuovo ma se la risolvono al solito modo”.

A questo punto chiediamo ulteriori lumi: “Faccio un esempio.

E’ capitata una disavventura giudiziaria al sindaco, il diessino Sergio Chiamparino quegli altri della Casa delle libertà si sono precipitati nella difesa.

Tutto bene, però, secondo me, hanno peccato di signorilità in eccesso.

Se la stessa cosa fosse accaduta al presidente della Regione, Enzo Ghigo, se a Ghigo fosse arrivata una tegola della magistratura, mi creda, l’avrebbero impiccato in piazza Castello dopo due minuti”.

Una cappa di tempo orribile ottunde gli umori dei metereopatici, e siccome in tutto questo c’è da dire che la città non è solo quella di Caselli & Violante, ma soprattutto è la città severa e accigliata dell’Azionismo, del Politecnico, dei santi laici Antonio Gramsci e Piero Gobetti, si capisce che pochi possono filarsela via da questa cappa di conformismo dove il fantozzismo è lo stile, ma moltissimi sono gli esclusi.

Sono tanti quelli tenuti fuori dal banchetto del potere.

I cattolici innanzitutto, coscienziosamente esclusi da una città che all’indomani del disastro Fiat sembra assomigliare a una città sovietica all’indomani della caduta del Muro di Berlino.

“L’immagine calza a pennello, a patto che nel ruolo del vopos smarrito ci mettiamo il cardinale Severino Poletto”.

E così che interviene un giovane sacerdote.

Viene incontro al suo parroco e il discorso allora sconfina sul piano delle sudditanze.

Ancora ridono all’idea che l’arcivescovo abbia rilasciato un’intervista ad Avvenire parlando della crisi della Fiat con toni da manager. C’è da ridere infatti: “Cosa vuole, è la Chiesa della collaborazione quella.

Non hanno consistenza nella fede e si fanno avanti per collaborare.

Invece che portare Cristo, pur di farsi accogliere nei piani alti, si lasciano trascinare dall’ansia di farsi ricevere, di farsi riconoscere un ruolo sociale, ma la Chiesa non deve avere complessi, quando il Papa venne a Torino, il 13 aprile 1980, alla città dei ‘santi sociali’ dell’Ottocento, a questa città senza più santi, disse chiaramente ‘Ma Cristo c’è.

Ed Egli basta per ogni tempo: Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!'”.

In tutto questo c’è da dire che la città ne ha macinati tanti di destini.

Buttiamola pure sull’antropologia, ma possiamo non raccogliere questo sfogo di un immigrato pugliese arrivato ad abitare in collina? “Nella Torino che conta, quando intendono esprimere riprovazione per un comportamento, un modo di essere, uno stile di vita, dicono: ‘non è un modello Fiat’.

Che cosa poi sia questo benedetto ‘modello Fiat’ – a parte l’attitudine all’obbedienza, l’inquadramento disciplinare, il conformismo, il fantozzismo congenito, lo spirito sabaudo- militaresco, l’inchino ai superiori, l’odio per i superiori sublimato in eroica rassegnazione, l’inclinazione vagamente servile, lo spirito monoculturale (come quello dei cubani vessati dalla canna da zucchero), l’allineamento esistenziale, il grigiore dimesso, il lamento sommesso, l’imprecazione soffocata, l’umorismo da utilitaria, il sesso in utilitaria, la mistica da utilitaria – a parte questo sia pur provvisorio elenco di irrilevanti quisquilie che certo non intaccano l’amore che tutti noi (isole comprese) portiamo alla gloriosa città di Torino, che cosa sia in positivo, questo ‘modello Fiat’, pochi riescono a capirlo”.

Buttiamo un occhio nell’archivio, c’è un ritaglio del gennaio 1996 firmato dalla chansonnier Gipo Farassino che vale l’intera opera omnia di Valerio Castronuovo: “La Fiat? Se non ci fosse mai stata la nostra regione sarebbe più ricca e prosperosa.

Per il Piemonte è stata una tragedia.

Gli Agnelli hanno commesso veri e propri crimini industriali.

Loro sono i padroni per antonomasia.

Si sono insediati qui in Piemonte e attraverso un discorso di accerchiamento dei mercati hanno creato una situazione sociale di spaventoso disagio.

Certo, hanno portato lavoro e ricchezza ma determinando la distruzione dell’identità collettiva della nostra gente che si è dovuta chiudere a riccio di fronte a una massiccia immigrazione continua negli anni.

Il gruppo Fiat prima ha spopolato le campagne piemontesi offrendo il presunto posto sicuro; poi ha portato nella nostra terra milioni di sradicati.

Oltre a questa colpa originaria, la Fiat ha la responsabilità di aver creato con l’indotto una pletora di falsi industriali.

Bastava avere trecento milioni e un amico all’ufficio acquisti e si diventava imprenditori.

Si costruiva un capannone e via. Però quando la casa madre chiudeva i rubinetti, mentre il falso imprenditore aveva fatto i soldi, i lavoratori venivano, come vengono, sbattuti per strada. E la situazione è destinata a peggiorare.

La Fiat andrà a costruire dove costa meno”.

In tutto questo c’è da dire che la situazione è già peggio di come l’aveva immaginata Farassino, Termini Imerese è pronta per essere data in comodato alla Regione Siciliana (con l’usufrutto a carico di Silvio Berlusconi), nessuno se la sente di parlare mettendoci nome, cognome e paternità, ma qui hanno imparato a godersela anche in piena eutanasia.

Nei locali arabi di via Sant’Agostino, all’Hafa Cafè per esempio, si fanno le tre di notte e finalmente sotto lo sguardo del Re.

Non più un Savoia, ma propriamente il sovrano del Marocco.

Qui c’è il cuore del centro storico, un tempo abbandonato dai torinesi, diventato ostello degli extracomunitari, oggi smagliante salotto grazie al genio dell’imprenditore edile De Giuli, consuocero di Valentino Castellani, l’ex sindaco, che seppe trasformare un intero tratto stradale grazie a una felice speculazione meritoriamente attrezzata di calce, regolo e cazzuola.

Se la godono a Torino e devono darsi tanti di quei baci (devono proprio toccarsi tanto) se nei taxi, tra gli avvisi sulle tariffe, devono scriverci a chiare lettere che è proibito il proibito: “Proibito compiere atti contrari alla decenza e al buon costume”.

In tutto questo salta all’occhio un dettaglio niente male, Torino è l’unica metropoli dove la grande criminalità organizzata non ha mai messo piede, tanto è pesante l’aria, e sempre per riprendere le parole del sacerdote con cui discutiamo, ovvero la necessità “di più libertà”, non è affatto un parados so quello di immaginare Corleone sotto Totò Riina più disinvolta di quanto non possa essere Torino sotto il peso della sua lagnosa superiorità morale.

Qui dove tutti si chiamano per cognome e mai per nome, nessuno parla, vede o sente.

Moraleggiano piuttosto, dall’alto di importanti case editrici, dall’alto di una tradizione fatta di memorialistica, quella da lapide funeraria dove è d’obbligo vantare e inventare solo titoli di merito.

Nel febbraio del 1967 la Stampa celebra se stessa dimenticando tutto il periodo che corre dal 1925 al 1945 per dimenticare così i quattro direttori del “Ventennio” e cioè Andrea Torre, Concetto Pettinato, Curzio Malaparte e Alfredo Signoretti, ed è una fortuna che poi, in questi insopportabili imbarazzi ci siano i prìncipi a risolvere le fetecchie dei servi.

Durante una cerimonia nell’anniversario dell’Unità d’Italia, Gianni Agnelli incontra Signoretti e alla presenza di Valletta, davanti a tanti giornalisti, lo saluta platealmente (e cordialmente) dicendogli: “La Stampa va bene; ma le tirature dei suoi tempi non sono state più raggiunte”.

Il prìncipe faceva riferimento alla cifra record di un milione e trecentomila copie.

“Fu la massima tiratura raggiunta – così ricordava Signoretti nel libro ‘La Stampa in camicia nera’ – e fu glorificata in un calco di piombo e bronzo che fu offerto all’allora vivente senatore Giovanni Agnelli”.

Era il 9 maggio 1936, il giorno della proclamazione dell’Impero e il giornale di Norberto Bobbio e Galante Garrone strillava in prima pagina questo titolo: “Ritorna l’Impero sui colli fatali di Roma”.

“Speriamo che non se ne vadano anche le Alpi”, questo è il distico che Aldo Cazzullo mette in un capitolo del suo libro “I Torinesi” (Laterza).

E siccome in tutto questo tutto torna, Cazzullo per questa guida alla città sembra quasi segnalare quella che in assoluto è la bibbia del pregiudizio etico piemontese, ovvero “L’uomo delinquente”, il capolavoro di Cesare Lombroso.

Tutto torna appunto, è il tic di questa città affacciata al suo prossimo trauma è ancora una volta il “sogno di catalogare il male”, di armare i suoi soldati per cingere d’assedio tutte le cittadelle della “cattiveria morale”.

Fosse pure il Sud del Sud dei Santi (manifesto teatrale di Carmelo Bene a cui Torino dedica in questi giorni una mostra), fosse pure ieri, contro “gli intellettuali della Magna Grecia (e ancora l’altrieri, contro i briganti lucani, partenopei e calabresi).

E in tutto questo c’è un caravanserraglio che avanza oltre Porta Palazzo fin dentro i reticoli della casbah di piazza della Repubblica (il nome istituzionale di Porta Palazzo).

“Il caravanserraglio avanza, i cammelli sono possenti, i cavalieri stanno in alto, ci sono i cani che abbaiano, ma non possono farci del male.

Al cammello basta dare una zampata per allontanarli, per noi è sufficiente non dare loro retta”.

E’ così che ci parla Bouchta Bouriqi, l’imam di Torino che certamente non segue il cardinale Poletto nella gara della collaborazione con il potere.

E’ impressionante quanto invece sia simile nella fatica della sua testimonianza di fede ai sacerdoti cattolici che “si cuccano i poveri, quelli poveri poveri”.

I cani che si sente abbaiare addosso, metaforicamente parlando, per carità, sono i soliti esponenti di Alleanza nazionale.

In questa città dove tutto è regolato dalla danza di monadi incomunicabili tra di loro, una città dove ognuno resta ciò che è, l’imam Bouchta si occupa solo dei suoi ragazzi, sono quelli che deve strappare alla strada, al furto e allo spaccio (“Io dico loro: con questi soldi sporchi non potete andare a Mecca, non potete fare il pellegrinaggio, non potete crescere i vostri figli. Sono soldi impuri. Loro capiscono”).

L’imam si muove tra la sua gente con il tratto e il tatto del Capo.

E’ incredibile come si ripetano sempre i codici di riconoscimento nel territorio.

“I poveri poveri, ce li cucchiamo noi” dice il sacerdote con il collare.

“I poveri poveri entrano fin dentro la mia macelleria per rubare” dice l’imam alto e magro senza cravatta: “Io dico loro.

Se avete fame ditelo a me, non rubate. Vi do dieci euro, venti euro. Ma non rubate.

Io vado alle Vallette, in carcere, a trovare i detenuti e dico sempre a loro, non rubate, non fate il male perché qui siamo ambasciatori dell’Islam”.

All’imam Bouchta che per sua fortuna non ha mai avuto a che fare con la cultura della schiatta azionista, con il mecenatismo della Fondazione Agnelli e con gli articoli di Maurizio Viroli, chiediamo come possa sentirsi a vivere in questa città detta altrimenti “città dell’Anticristo”.

Ci risponde spiegandoci come attraverso le falangi delle dita, con l’insieme di tutte le dita, si possano calcolare i tempi e i numeri delle preghiere. “Non una di più, non una di meno”.

Questa risposta, a voler seminare zizzania, meriterebbe una riflessione del cardinale, a meno che non voglia riprendere quella riflessione di Gustavo Zagrebelsky, intimo di Oscar Luigi Scalfaro, collocato nella Corte costituzionale, quando a proposito di Cristo e Barabba disse che la scelta di allora era la stessa scelta di oggi: andare contro Berlusconi o a favore di Berlusconi? Ovvero a favore di Barabba, notorio ladrone.

C’è da rifarsi le orecchie ad ascoltare l’imam Bouchta, ci racconta la storia di un’emigrazione che comincia e ricomincia sempre. E sempre alla ricerca di quello che lui chiama “benessere e giustizia”.

Torino per lui è il futuro, intorno a lui crescono tre figli, i suoi fratelli di fede, la comunità di destino che anche sotto questa pioggia sa farsi popolo.

Ci vuole un occhio addestrato ai codici del digiuno che si fa ragione del sazio per cogliere i reticoli del carisma di quest’uomo. Lui è il sindaco del rione Porta Palazzo.

Non vorremmo turbare troppo Ferdinando Ventriglia e Agostino Ghiglia, i due esponenti di Alleanza nazionale che lo tallonano per un equivoco di ruoli più che per convinzione, ma la storia appartiene al popolo e, infatti, si dice sempre “Terra per quanto ne puoi avere dentro agli occhi, Casa per quanto ti basta”.

All’imam che fa il macellaio ma ha lavorato alla pressa e al tornio, all’imam che parla un italiano immacolato, chiediamo un parere sulla crisi della Fiat. La domanda è fessa.

Disarmante è la risposta: “Io bevo nella tazzina il caffè, ma non c’era la tazzina al tempo del Profeta. Io uso il telefonino, ma non c’era il telefonino al tempo del Profeta.

Io ieri sono andato in banca per fare un versamento, ma non c’era la banca al tempo del Profeta”.

Capita l’antifona.

Fino ad oggi c’è stata la Fiat e, in tutto questo, c’è da dire che appunto, non c’era proprio al tempo del Profeta.

C’era il lavoro.