LA COPERTINA
Riccardo Nespor, 6 anni, dipinto a olio su tela
IN QUESTO NUMERO
In questo trentatreesimo fascicolo dei Testi Infedeli troverete: un ricordo di Rachel Carson in occasione del centenario della sua nascita, e un ricordo di ignote operaie di Chittagong; due storie italiane di sport e spettacolo; una riflessione sulla menzogna e l’infedeltà; la storia di un eretico finito sul rogo a Campo dei Fiori qualche tempo prima di Giordano Bruno. Troverete inoltre poesie di Ivan Lalìc, e poi di due autori che sono vissuti insieme per qualche tempo a Praga e si sono anche vicendevolmente tradotti: la spagnola Clara Janés e il boemo Vladimìr Holan. Infine, un piccolo pezzo da Le petit prince. Troverete infine una fotografia scattata a Lipsi, nel Dodecanneso, nell’ottobre di quest’anno da Marina Nespor.
PRIMAVERA SILENZIOSA
“Benvenuta, così è lei la donna che ha dato inizio a tutto questo”.
Con queste parole Rachel Carson fu accolta dal Presidente della Commissione d’inchiesta sull’utilizzazione dei pesticidi del Congresso degli Stati Uniti, nel giugno del 1963. L’inchiesta che porterà al bando del DDT e all’introduzione di severe regole per l’uso di prodotti chimici nell’agricoltura, fino a quel momento utilizzati in modo indiscriminato nelle campagne (ricordate tutti la indimenticabile scena di Intrigo internazionale di Hitchcock ove James Stewart sfugge all’aereo incaricato di spargere il DDT). Sono le stesse parole con cui Abraham Lincoln accolse alla Casa Bianca Harriet Beecher Stowe, il cui libro La capanna dello zio Tom contribuì alla presa di coscienza collettiva che dette il via alla Guerra di Secessione.
Nata nel 1907 in un piccolo villaggio della Pennsylvania, laureata in biologia marina, scrive nel 1951 Il mare intorno a noi, con cui vince il National Book Award e diviene famosa. Collabora con riviste scientifiche e di informazione (tra cui il New Yorker, dove apparirà, a puntate, Primavera silenziosa) Quando una residente di Long Island denuncia il Governo perché l’uso a pioggia dei pesticidi ha distrutto il suo giardino e chiede il suo aiuto, Rachel Carson accetta e si lancia nella battaglia che segna l’inizio del movimento ambientalista negli Stati Uniti e nel mondo: Primavera silenziosa è pubblicato nel 1962. È uno strepitoso best-seller internazionale. Di lì a qualche anno, il DDT sarà bandito negli Stati Uniti e in molti paesi europei.
Scrive l’Autrice: “Credo fermamente che in queste generazioni dovremo scendere a patti con la natura: l’intera umanità si trova di fronte a una sfida mai verificatasi prima, e in questa sfida dobbiamo provare la nostra maturità e la nostra capacità di controllare non la natura, ma noi stessi”.
Rachel Carson muore nell’aprile del 1964. Il suo ultimo libro, The sense of wonder, è pubblicato postumo.
Una breve biografia di RACHEL CARSON è in Americane avventurose di Cristina De Stefano, Adelphi 2007.
LA CHIAVE IN TASCA
La chiave non è stata trovata.
Il padrone della KTS Textile Mills di Chittagong (Bangladesh) l’aveva messa da qualche parte al sicuro dopo aver chiuso le porte, per impedire che qualche operaia, approfittando di un momento di disattenzione delle sorveglianti, potesse allontanarsi.
Per lo stesso motivo anche le finestre erano chiuse, sprangate dall’esterno.
Così, alle 5.30 del mattino, quando i rotoli di stoffa si sono incendiati per lo scoppio di un radiatore elettrico, e le fiamme si sono rapidamente propagate nella stanza, le operaie sono rimaste bloccate da ondate di fumo e di fuoco: 65 sono morte bruciate.
Alcune sono riuscite a sfondate i vetri delle finestre, e si sono gettate nel vuoto dal terzo piano.
L’odore di carne bruciata non è arrivato qui in Europa: i telegiornali hanno ignorato la notizia.
Sei miliardi di dollari annui sono il fatturato complessivo delle esportazioni di manufatti tessili dalle lontane fabbriche delocalizzate nel Bangladesh verso l’Europa.
Sono magliette e T-shirt che vengono acquistate pochi centesimi di euro l’una, e vengono poi rivendute, dopo che sono stati apposti i marchi più noti, per svariate diecine di euro. Con targhette che spesso dicono made in Italy. È l’effetto dell’immenso valore acquisito dalla proprietà intellettuale nell’epoca della globalizzazione.
In molte nostre città sono presenti i prodotti della KTS Textile Mills. Non c’è tempo né distanza che ci separi da Chittagong, Bangladesh e dalle operaie prigioniere, asfissiate, bruciate delle quali non si sapranno mai i nomi.
Di quella chiave che non si è trovata, molti ne hanno una copia in tasca.
Da MARIUCCIA CIOTTA, Donne al rogo, in Il Manifesto 25\2\2006. Oltre a operaie anonime, a Chittagong ci sono annualmente centinaia di annegati anonimi, a causa dei cicloni che, con crescente violenza si abbattono sul Bangladesh, secondo molti per effetto del cambiamento climatico: anche qui, come si sa, i paesi ricchi hanno qualche responsabilità in proposito.
DUE STORIE DI SPORT E SPETTACOLO
I
Nel 1922 debutta a Malta Ugo Zacchini (1898 – 1975): Ugo viene prima collocato all’interno di un cannone ad aria compressa – solo la testa sporge ed è visibile dal pubblico – e poi scaraventato a cinquanta metri di distanza.
Il successo dell’uomo proiettile è enorme. Lo spettacolo è portato dal padre Ildebrando (che possedeva un piccolo circo) in Italia e in Europa.
Nel 1929 c’è il grande salto verso la notorietà internazionale: Ugo è scritturato dal più famoso circo del tempo, il Circo Barnum, per una tournee negli Stati Uniti.
Lì l’uomo proiettile acquisisce notorietà e popolarità. Ugo si stabilisce quindi in America. È seguito dapprima dal fratello Mario, poi dalle sorelle.
Tutti, e anche i figli (tra cui Hugo II e Hugo II jr.) e i nipoti seguono la sua strada e divengono proiettili umani.
A un certo punto c’erano trentasei proiettili Zacchini che si esibivano insieme, sparati in rapida successione da 12 cannoni ad aria compressa: a seguito di numerosi perfezionamenti tecnologici, raggiungevano una altezza di trenta metri e atterravano a oltre sessanta metri di distanza. L’ultima erede della famiglia, Duina (nipote di Edmondo), che con la sorella Vittoria formò la coppia di donne proiettile nota come “The Zacchini Sisters”, è morta a 82 anni nel dicembre del 2006.
Tutti i proiettili Zacchini vivevano insieme a Tampa, in Florida. Il giardino della loro casa però era troppo piccolo per poter compiere gli allenamenti al suo interno, così Ugo e i suoi parenti si sparavano al di là della strada, in un prato poco distante. Ma a seguito dei numerosi incidenti di automobilisti di passaggio che pensavano ad allucinazioni o ad invasioni di extraterresti quando vedevano i proiettili umani schizzare in alto, la polizia proibì gli allenamenti.
È però frutto della fantasia di Federico Fellini (nel film Clowns) il fatto che il Sindaco di Tampa avesse posto, all’entrata della città, un cartello con la scritta “Se vedete un uomo che vola, non spaventatevi. Sono gli Zacchini che stanno allenandosi”. Ugo Zacchini amava raccontare che l’idea di diventare un proiettile gli era venuta durante la prima guerra mondiale: mentre era al fronte, aveva proposto al proprio generale di progettare un cannone per lanciare soldati dotati di paracadute oltre la trincea nemica, in modo da prendere i nemici alle spalle. La proposta non dispiacque allo stato maggiore italiano. Ma la guerra finì prima che il progetto fosse realizzato. Allora Ugo propose al fratello Edmondo, che lavorava alla Fiat, di elaborare con lui un progetto di cannone per un corpo specializzato di soldati proiettile da utilizzare nella guerra seguente. I comandi militari italiani però lo respinsero come impraticabile. Al fratello Bruno venne allora in mente che il lancio con il cannone poteva essere uno spettacolo da inserire nel circo del padre. In realtà, gli uomini proiettile erano diffusi da oltre cinquanta anni.
Secondo gli storici del settore, il primo uomo proiettile fu nel 1871 un inglese chiamato George Farini, che utilizzava però un cannone a molla e riusciva quindi a compiere un tragitto assai breve. Due anni dopo, nel 1873, Lulù (in realtà un uomo vestito da donna) si sparò in aria a New York compiendo una traiettoria di oltre dieci metri di fronte a un folto pubblico. La prima vera donna proiettile fu Zazel, nel 1877, anch’essa assoldata ben presto dal Circo Barnum.
II
Luigi Merli e Pierino Pozzi iniziarono il loro viaggio da Luino a Roma in barca a remi ai primi di giugno, salutati dal Segretario politico (da cui avevano ricevuto una calorosa lettera di presentazione che avrebbe dovuto servire per ottenere assistenza, pasti e un letto dovunque arrivassero) e da un piccolo gruppo di sostenitori.
Il percorso – a lungo studiato – prevedeva di scendere il Ticino, confluire nel Po, immettersi nell’Adriatico, costeggiare fino alla foce del Tevere e poi, risalitolo, giungere a Roma.
A Pavia, Piacenza, Cremona e Revere, nonostante la lettera, nessuno offrì loro del cibo: saltarono i pasti e dormirono sulla spiaggia, vicino alla barca. Un letto fu offerto solo dal Segretario politico di Ficarolo.
Mangiati dalle zanzare e con il sedere piagato, bruciati da sole, cominciarono a costeggiare l’Adriatico verso la fine di giugno. Fino a Cesenatico, fu un calvario di piccole tappe. Luigi e Pierino dormivano all’umido, sulla spiaggia, svegliandosi alle quattro del mattino. A Riccione – finalmente! – furono ricevuti da Bruno e Vittorio Mussolini i quali scrissero alcuni motti di augurio sul loro libro di bordo e subito se ne andarono; non ricevettero però né pasti, né letti, né aiuti economici.
Poi, i due fecero naufragio a Capo Focaia e persero gran parte degli indumenti e degli strumenti. Distrutti dalla fame e dalla sete toccarono via via Marotta, Senigallia e altri porti. A porto San Giorgio furono gettati dai marosi sulla spiaggia e furono rifocillati e ospitati dalla locale società di canottieri. A Porto d’Ascoli e nelle tappe successive furono aiutati dalle guardie di finanza. A Polignano furono invitati ad una cena di nozze; nel frattempo però qualcuno rubò il timone, costringendoli ad una lunga sosta. A Torre Chianca furono ancora derubati e fecero indigestione di frutta. A San Cataldo fecero nuovamente naufragio. Il segretario politic di Taranto, cui si presentarono in mutandine, li fece rivestire. Ridotti a una magrezza impressionante, furono tuttavia seguiti da un grosso pescecane fino a Rocca Imperiale. Dopo nuovi naufragi e nuovi furti, rimasero di nuovo con le sole mutande che, per decenza, indossavano con l’apertura nella parte posteriore quando si presentavano alle autorità locali.
Ai primi di novembre, intirizziti e bagnati, imboccarono la foce del Tevere e giunsero a Roma, dopo cinque mesi e dodici giorni dalla partenza da Luino. La barca affondò nella darsena della società Aniene, lasciandoli con i remi in mano. Ma li aspettavano le notti romane e i sognati trionfi.
Mussolini però non volle riceverli. Elda, che all’avvio li aveva incoraggiati, non diede alcuna notizia: era all’estero. Luigi e Pierino attesero in una darsena giorni e giorni fino a che un generale della Milizia, incaricato di allontanarli da Roma, lì munì di indumenti e di biglietti ferroviari. Fecero così ritorno a Luino.
La storia della famiglia Zacchini è tratta dal Dizionario dello Spettacolo del Novecento, Baldini & Castoldi, e da articoli apparsi su quotidiani italiani, francesi e americani.
La storia di Luigi Merli e Pierino Pozzi è tratta da Il piatto piange di Piero Chiara, ripubblicato ora nella raccolta di tutti i romanzi da Mondadori nei Meridiani.
TRE POESIE DI IVAN LALIC
Ultimo Quarto
La luna comincia a rodere sé stessa
Alla fine di giugno: è l’ultimo quarto.
Il secolo si divora come la luna,
si dirige alla foce, accelera e curva.
Sull’oceano naviga la flotta,
il suono si frantuma in schegge
che trafiggono l’atmosfera.
Uno spirito maligno di notte sconvolge
Il senso di un libro amato
Nel tempo del primo equilibrio.
Il bicchiere sul tavolo scoppia.
Intanto, si spengono i fuochi:
non c’è più combustibile.
Tu però non permettere al cuore
Di appesantirsi troppo nell’attesa:
riconta le parole fidate
l’ultima tienila per te.
Ciò che ogni albero sa
Impara, cuore, ciò che ogni albero sa:
disporre la radice, conficcarla
con giusto orientamento nel buio sparso;
non dentro il sasso, ma attorno;
non dentro l’argilla, ma verso l’acqua lontana.
Se non fa così, rachitica sarà la chioma
Gibboso lo sforzo di ergersi, brutta la corteccia,
secco e rado il frutto.
Ogni albero lo sa. Tranne l’ulivo.
Non imparare, cuore, dal folle albero d’ulivo
Che ricorda gli dei ellenici, innamorato della pietra
E del serpe che custodisce nella sua radice.
Il monologo del corvo
La colomba, lo so, è molto meglio
Per portare la buona novella
Nel piccolo becco stanco che già è un simbolo.
In ramoscello, speranza, modello per pittori,
nei manifesti di pace.
Io scelgo l’assenza,
ora che sono chiuse le sorgenti dell’abisso
e le cateratte del cielo. Scelgo la coscienza limpida.
Sulle mie piume nere porto il sole, dopo il diluvio.
Becco gli occhi del peccatore. Gracchio.
Sarò dipinto sugli stemmi, diritto sulla neve,
nero come una parola funesta.
Mi insegneranno a dire nevermore. Sarò famoso.
Ma non come la colomba: nel suo volto,
si ricopre di piume la speranza, nelle mie piume
invece, si materializza la paura.
IVAN LALIC, nato a Belgrado nel 1931 e morto nel 1996. È considerato il più grande poeta serbo del ventesimo secolo. Ha tradotto la Divina Commedia. Le poesie sono tratte dalla raccolta Strasna mera (Ultima misura) del 1984.
CAUTAMENTE DISSIMULARE, PIAMENTE TACERE
Fra i sette vizi capitali non è compresa la menzogna. Nella dottrina cattolica, a partire da Papa Gregorio Magno (eletto nel 590), la menzogna è considerata solo un “peccato derivato”: strumento dell’avarizia (nella forma dei raggiri), o strumento dell’invidia (nella forma della maldicenza).
È del resto significativo il fatto che nella Divina Commedia non sia riservato ai mentitori un girone specifico.
Questo atteggiamento aveva precise ragioni: con l’inganno e i raggiri la Chiesa aveva costruito il suo impero.
Ben nota è la falsa donazione di Costantino che aveva posto le basi per giustificare il potere temporale; meno noti sono gli atti con i quali Ottone il Grande, l’imperatore analfabeta, confermava al papa Giovanni XII le donazioni effettuate dai suoi predecessori e gli donava i territori conquistati a Berengario marchese di Ivrea sottoscrivendo atti predisposti dal suo seguito di religiosi incaricati di scrivere per suo conto, e firmati nella convinzione che si trattasse solo di piccole concessioni di terra.
In entrambi i casi, secondo la Chiesa si trattava di menzogne e di inganni a fin di bene, quindi moralmente non riprovevoli, ed anzi addirittura encomiabili.
La menzogna a fin di bene – il peccatillum dei gesuiti – passa da principio dell’educazione cattolica a cardine della pratica politica, insieme ad altri espedienti, tutti giustificati dal fine perseguito.
Alcuni tra i più celebri sono indicati da Immanuel Kant nel suo Trattatello Zum ewigen Frieden, scritto nel 1795 in occasione della pace di Basilea tra Francia, Spagna, Olanda e Prussia.
Kant ricorda la reservatio mentalis, consistente nel formulare delle affermazioni in modo che, alla bisogna, possano essere interpretate anche in altro modo, a proprio vantaggio; il peccatum philosophicum, in base al quale si sostiene che l’occupazione di un piccolo stato da parte di uno più grande porta comunque vantaggi al mondo globalmente considerato; il probabilismo, con il quale si attribuiscono intenzioni ostili ad altri, ipotizzando che siano in possesso di poteri e forze non dichiarate per poterli eliminare. Sugli ultimi due espedienti si è basata la politica estera di conquista e sopraffazione degli Stati Uniti: dalla guerra fredda, al Vietnam, all’Iraq.
L’importanza della menzogna a fin di bene nel suo passaggio da strumento religioso a strumento politico è evidenziata dalla vicenda che contrappone Girolamo Tartarotti agli ecclesiastici trentini nella seconda metà del XVIII secolo.
Con la sua Lettera intorno alla santità e martirio di Alberto vescovo di Trento Tartarotti svelò nel 1752 l’ingannevole costruzione che aveva portato a venerare come santo e martire il vescovo (De origine ecclesiae tridentinae et primis eius episcopis, 1743). Tartarotti dimostrò che il santo in realtà altro non era che un mercenario a sostegno dell’imperatore Federico Barbarossa è mori non già come martire ucciso da infedeli o da eretici a motivo di religione, ma combattendo “ contro altri cattolici in guerra civile”.
Le proteste degli ecclesiastici trentini e dei loro sostenitori furono veementi. Il barone Leopoldo Pilati ricordò minacciosamente a Tartarotti che “ruina est homini devorare sanctos”, ammonendolo che il corretto comportamento da seguire, conformandosi alle tradizioni ecclesiastiche, avrebbe dovuto essere quello di “contentarsi di privato esame per dare pascolo alla sua erudizione” e poi “cautamente dissimulare, piamente tacere”.
Invece, il francescano Benedetto Bonelli, con il quale Tartarotti già si era scontrato a proposito di streghe e di maghi (che, a differenza di Bonelli, Tartarotti riteneva il frutto dell’esasperata immaginazione di villici abbrutiti dalla miseria, il cui tragico abbaglio è sostenuto dai tribunali e dall’inquisizione che sulla pelle di quegli infelici consolidano la propria forza) aveva risposto con una voluminosa Dissertazione intorno alla santità e martirio del Beato Adalpreto vescovo di Trento (pubblicata nel 1754) ove osservava che, quando anche si ammetta che Adalpreto sia morto combattendo con la lancia in resta, “il suo sacrificio non cessa di essere un santo martirio perché è dovere dell’ecclesiastico tutelare con tutti i mezzi il prestigio della propria Chiesa”.
Da: Franco Rositi, La tolleranza della menzogna nella scena pubblica, versione provvisoria; Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli 2003, in particolare la I Appendice: In merito all’armonia che il concetto trascendentale di diritto pubblico stabilisce tra moralità e politica. La Lettera di Tartarotti può essere letta in La letteratura italiana –Storia e testi, volume 44, tomo V Dal Muratori al Cesarotti, con una nota introduttiva di Marino Berengo. Su questi temi, si può vedere “Verità e politica” tratto da uno scritto di Hanna Arendt nel numero di dicembre 2006 dei testi Infedeli.
TRE POESIE DI CLARA JANÉS
I
Bevi le ombre – disse
Bevi l’oscurità
Dell’amore mortale
E chiudi gli occhi tra le mie ali
Che sono la barca che oltrepassa
Spazio e tempo
II
Isole siamo nel mare
Delle meraviglie.
La parola si squama
Le spiagge in movimento
Minacciano da ogni parte
E l’orizzonte
È la lama di una spada
Pronta a tagliare il giorno.
Ma ad ogni tramonto
Tra il verde delle acque
Emerge il canto del navigatore solitario
Come la vela di una nave amica
Che si dirige senza esitazione
Verso la notte.
III
E mentre si faceva sera
Il cielo spostava la porpora fiammeggiante.
Scendeva l’ombra
E si ripiegava il giorno.
Non per amore
Il passero crudele
Rovesciò le sue lacrime sul mio petto.
Da CLARA JANÉS, Arcàngel de sombra, Visor Madrid 1999. Clara Janés è nata a Barcellona nel 1940, ha studiato a Pamplona e a Parigi, risiede a Madrid. È autrice di romanzi, saggi, raccolte di poesie -Eros (1981), Vivir (1983) Fósiles (1987) e Lapidario (1988) – e traduzioni dal francese, dal turco, dal persiano e dal boemo. Particolarmente importante nella sua formazione è stato l’incontro a Praga con Vladimir Holan, cui ha dedicato nel 1986 il libro di poesie Kampa – dall’omonima isola di Praga ove Holan viveva – e dai cui temi ha tratto ispirazione per un’altra raccolta poetica, il Libro de alienaciones (1980). Molte delle sue opere si richiamano anche alla mistica islamica: la più nota è Diván del ópalo de fuego o La leyenda de Layla y Machnún del 1996, che riprende un racconto folclorico persiano. Ha vinto il prestigioso Premio Nacional de Traducción nel 1997. Arcàngel de sombra (1999) – da cui sono tratte le tre poesie – ha vinto il premio Melilla per la poesia.
QUATTRO POESIE DI VLADIMIR HOLAN
Voce umana
Le pietre e le stelle non impongono
la loro musica su di noi
I fiori sono silenziosi
Le cose trattengono i loro messaggi
Noi non riconosciamo
La loro armonia, fatta di innocenza e sicurezza.
Il vento possiede sempre la castità
dei suoi semplici gesti
E quale sia il suo canto solo gli uccelli lo sanno
Essere è sufficiente e non ha bisogno di parole. Noi
invece abbiamo paura non solo nel buio,
anche in piena luce
Non vediamo i nostri vicini
E disperati, gridiamo impauriti:
Ci siete? Parlate
Notte di capodanno
Che cosa porterà il vento questa notte ?
la pioggia, la neve o una lettera?
Una lettera di chi? Bella o brutta?
Tutto, perfino il silenzio
Ha qualcosa da dire.
Ma tutto, anche ciò che non si può dire,
qualcuno finirà per dirtelo.
Neve
La neve cominciò a cadere a mezzanotte. Ed è
vero che si sta meglio in cucina,
anche se è una scelta dovuta all’insonnia.
È caldo, ti cuoci qualcosa, bevi del vino
e guardi dalla finestra l’intima eternità.
Che importa se nascita e morte sembrano solo dei
piccoli punti
Quando la vita è una linea imprecisa.
Perché dovresti tormentarti guardando il calendario
chiedendoti che senso ha tutto?
Perché confessare che non si hanno i soldi
Neppure per comprare un paio di scarpe?
E perché pretendere che tu soffri più degli altri?
Se qui tutto non fosse silenzio
La neve l’avrebbe inventato.
Sei solo. Risparmia i movimenti.
Non c’è bisogno di mettersi in mostra.
Stelle
Ho imparato questa notte da un libro
di astronomia
Che alcune stelle sono assai vecchie
E prossime ad estinguersi. Allora
Ho aperto la finestra
E ho cercato la stella più giovane.
Ma ho potuto vedere solo nuvole,
mentre il riso sottile di uno sconosciuto
mi indusse a vedere
una stella lontana,
proprio quando l’alba stava rompendo la notte.
Da VLADIMÍR HOLAN (Praga, 1905 – 1980). Dopo aver studiato legge, si dedica alla poesia. La prima raccolta di versi, Il ventaglio delirante, è del 1926,. Nelle raccolte seguenti Trionfo della morte (1930) e L’arco (1934) i critici hanno individuato l’influenza di Mallarmé e del simbolismo. Aderisce al partito comunista e scrive Primo testamento (1940), Terezka Planetova (1944), Viaggio d’una nuvola (1945), Ringraziamento all’Unione Sovietica (1945), Requiem (1945). Quando la Cecoslovacchia diviene comunista, è espulso dal partito per decadentismo, e le sue opere sono proibite.
Da questo momento fino alla morte visse praticamente autorecluso nella sua casa nell’isola di Kampa, a Praga, divenendo un mito vivente ed essendo considerato da tutti il più grande poeta praghese. In questo lungo periodo, scrive Una notte con Amleto (1964; la traduzione italiana è del 1993, con la prefazione di Angelo Maria Ripellino); Ma c’è la musica (1968), Un gallo a Esculapio (1970), I documenti (1976), Ovunque è silenzio (1977). Su Holan, si può leggere L’oracolo di Praga, colloquio con Giovanni Raboni, nel libro edito dal Fondo Pier Paolo Pasolini. Le poesie qui pubblicate sono state anche tradotte da Clara Janés.
RITORNO A CAMPO DEI FIORI: STORIA DI UN ERETICO DIMENTICATO
Antitrinitaristi, unitariani, universalisti, anabattisti, mistici: sono migliaia gli eretici dichiarati o, più spesso, i sospetti di eresia che fuggono nel XVI secolo prima dai territori controllati dalla Chiesa cattolica, riparando nei Grigioni, o a Basilea; poi debbono lasciare anche la Svizzera e i paesi controllati, con modi sempre più intolleranti, dalle chiese protestanti.
Fuggono dai roghi e dalle torture, o, nel migliore dei casi, dai lunghi anni di prigionia: le religioni in Europa mietono vittime.
Seguono spesso le tracce di altri italiani, che sono in precedenza emigrati alla ricerca di opportunità di affari o di lavoro.
Cercano luoghi ove sia possibile vivere professando liberamente le proprie idee, sempre pronti a spostarsi quando si profila il pericolo di essere consegnati agli emissari delle Chiese che li ricercano per bruciarli.
L’esodo si indirizza verso la Polonia (Cracovia soprattutto), la Moravia, la Transilvania, la Lituania.
Alcuni dei fuggitivi sono agiati: sono loro che assistono quelli privi di mezzi. Altri riescono ad ottenere protezione dai signori locali, sfruttando le loro conoscenze, le loro capacità professionali, altri ancora si arrangiano come possono. Raramente la loro presenza è gradita alle popolazioni locali, che vedono gli esuli come potenziali concorrenti negli affari, o come clandestini pronti a rubare occasioni di lavoro, e sono pronti a denunciarli per sbarazzarsene.
Tutti sono vittime dell’intolleranza e della repressione delle Chiese ufficiali, e difensori di principi di libertà e di dignità. Tra loro, ci sono estremisti, fanatici, visionari, profeti e pseudoprofeti, ma ci sono anche gli epigoni dei liberi pensatori dell’Umanesimo e gli antesignani dell’Illuminismo.
Molti sono noti, di altri si sono perse le tracce e rimangono pochi cenni in lettere e in documenti ufficiali mai tradotti o pubblicati.
Tra i primi, anche se non personaggio di primo piano, vi è Jacopo Paleologo. D’origine greca (nacque a Chio nel 1520), entrò nell’ordine dei domenicani e studiò teologia a Genova e a Bologna. Ben presto cominciò a sviluppare idee universaliste sostenendo che non solo i cattolici, ma anche i fedeli di altre religioni, in particolare gli ebrei ed i mussulmani, potevano aspirare alla vita eterna.
Erano tesi già sostenute nel secolo precedente da Marsilio Ficino e, più cautamente, da Pico della Mirandola e da molti altri umanisti neoplatonici; pochi anni addietro, le stesse tesi sosteneva Zwingli a Basilea. Ma ormai, dopo la Riforma, il rifiuto della supremazia assoluta del cristianesimo era una eresia ovunque perseguita: per i suoi sostenitori non c’era scampo.
Jacopo fu inquisito varie volte, fu deportato a Roma e qui incarcerato e torturato. Fu condannato al rogo. Campo dei Fiori era già allestita per l’esecuzione, ma riuscì a fuggire all’ultimo momento, approfittando dei moti popolari scoppiati alla morte del papa Paolo IV.
Si rifugiò in Moravia, da qui fu costretto a riparare in Transilvania: un’isola ancora felice, dove riuscì addirittura a divenire preside del ginnasio di Kolozsvár. Poi, nel 1576, si spostò in Polonia, a Cracovia.
Qui scrisse il trattato De discrimine Veteris et Novi Testamenti ed altre opere meno note, con le quali attaccava il papato e le istituzioni cattoliche, ma anche le chiese protestanti e perfino altri compagni di sventura: non aveva un carattere facile, Jacopo, aveva molti nemici e non molti amici.
Quando tornò clandestinamente in Moravia, nel dicembre 1581, un delatore rimasto ignoto avvertì il vescovo di Olomouc. Questi immediatamente lo fece arrestare e condurre a Vienna. L’imperatore Rodolfo II, protettore di maghi e di alchimisti, cedette alle richieste del Papa Gregorio XIII Buoncompagni con il quale aveva nei mesi precedenti collaborato per la riforma del calendario (il 4 ottobre del 1582 fu seguito dal 15 ottobre). A Roma Jacopo fu nuovamente incarcerato e torturato. E di nuovo condannato al rogo.
Il 18 febbraio 1583 si avviò verso Campo dei Fiori, dove lo attendeva quel supplizio dal quale era riuscito fortunosamente a sfuggire quindici anni prima.
Era in compagnia di altri due eretici. Questi ultimi furono effettivamente bruciati (uno, essendosi pentito, fu prima impiccato e poi arso, mentre il secondo, avendo rifiutato ogni pentimento, fu bruciato vivo).
Ancora una volta, all’ultimo momento, Jacopo si salvò.
Per ragioni mai ben chiarite, e nonostante il suo curriculum ereticale di prim’ordine, fece ritorno da Campo dei Fiori per ordine dello stesso Gregorio XIII. Fu imprigionato nel carcere di Tor di Nona. Passarono due anni, e Jacopo pensava di essersela cavata anche questa volta.
Non fu così. Non sappiamo che cosa successe: forse incautamente Jacopo ricominciò a sostenere le sue tesi universaliste. Forse Papa Gregorio, ormai ottantaquattrenne e prossimo alla fine, decise di non lasciare questo problema scottante al suo successore.
Il 22 marzo 1585, di buon mattino, Jacopo venne condotto per la terza volta a Campo dei Fiori proprio mentre Roma si apprestava a festeggiare la visita dei primi giapponesi convertiti al cattolicesimo.
Questa volta la fortuna lo abbandonò. Fu prima decapitato e poi bruciato: nello stesso punto dove, qualche anno più tardi, avrebbe subito la stessa sorte Giordano Bruno.
Dopo neppure un mese, il 10 aprile, moriva anche Gregorio XIII.
Da: Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Sansoni 1967; Domenico Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania, Sansoni 1970.
DOVE SONO GLI UOMINI?
Il piccolo principe traversò il deserto e incontrò solo un fiore. Un piccolo fiore con tre petali.
Buon giorno, disse il piccolo principe.
Buon giorno, disse il fiore.
Dove sono gli uomini?, domandò il piccolo principe.
Gli uomini? Ne esistono, credo, sei o sette in tutto.
Li ho visti passare molti anni fa. Era una carovana, con dei cammelli. Non sai mai dove trovarli: il vento li spinge di qua e di là. Non hanno radici, e questo, credo, li affligge molto.
Addio, disse il piccolo principe.
Addio, disse il fiore.
Da ANTOINE DE SAINT-EXUPERY, Le petit prince, Gallimard 1943. L’edizione italiana nei tascabili Bompiani è del 2005, con la traduzione di Nini Bompiani Bregoli
Questo trentatreesimo volume dei Testi Infedeli è stato stampato nel novembre del 2007 in duecentocinquanta copie non numerate e fuori commercio da Compostudio s.r.l. di Cernusco sul Naviglio, Milano.
Come sempre, ho liberamente e infedelmente tradotti e talvolta riscritti quasi tutti i testi; spesso è stato rispettato – non sempre integralmente – il pensiero dell’autore.
Il volume non sarà più inviato a chi non ne accusa ricevuta per due volte consecutive.
I Testi Infedeli escono dal 1989.
I fascicoli apparsi a partire dal 1992 possono essere letti nel sito www.stefano.nespor.it.
Il sito è curato e aggiornato da Stefano Rossi.
Ringrazio Maria Inglisa per le pazienti verifiche cui ha sottoposto il testo; Salvatore Giannella per i suggerimenti; Marina Nespor e Pasquale Pasquino per la tradizionale revisione.
Finito di stampare da Compostudio nel mese di novembre 2007.